La guerra era finita da tre anni. Quell’anno,
noi ragazzi, avevamo scelto, come luogo per la
merenda di pasquetta, Cesa
Paradiso, cioè, la zona del monte Arunzo che sovrasta la chiesetta di San
Giovanni, e da dove si gode una vista spettacolare su tutta la valle. Per l’occasione io mi ero attrezzato per
preparata la bevanda: una bibita base di aranciata, fatta con la cartina. Per
poterla fare in modo che rimanesse
frizzante, avrei dovuto avere una bottiglia con il tappo a chiusura ermetica,
come quelli delle gassose; ma chi te lo dava?
Non avevo neppure quella col tappo a vite, che avrebbe fatto al caso. Mi
dovevo accontentare di una semplice bottiglia da chiudere con il tappo di
sughero. Era una gara dura; appena versavo la polverina contenuta nella cartina
dentro la bottiglia piena d’acqua, questa iniziava a frizzare così forte
che non riuscivo ad inserire in tempo il tappo
a dovere; e poi, il tappo di sughero non teneva, e quando mollavo la
presa, quello saltava via lasciando uscire quel poco di gas che si era
formato. Quindi, mi dovevo accontentare
di quell’acqua colorata dal vago sapore
di arancia; e poi non era neppure fresca, ché allora non avevamo mica il frigorifero.
L’unico ambiente un po’ refrigerato era la nostra cantina, costruita a ridosso
della roccia. Comunque, allora ci si accontentava di poco.
In un sacchetto di tela, uno di quelli
utilizzati per vari usi, sistemai tutte le mie vettovaglie che, come al solito,
consistevano soprattutto in dolci e bevande; chiaramente tutto fatto in casa e
regolarmente benedetto, come esigeva la devozione di allora : un pezzo di pizza sbattuta tipo pan di spagna, un pezzo
di ciambellone, alcuni biscotti, una ciambella di quelle che prima di andare al
forno vanno sbollentate, un paio di arance, un uovo sodo, un pezzetto di uovo
di cioccolata e la bottiglia di aranciata. Non mancava nulla; mancava solo la
nutella, ma non era stata ancora inventata.
Appuntamento a Pitori, la parte alta di
Petrella Liri. Eravamo sette od otto ragazzi.
Ci avviammo per la salita che,
passando per la zona delle stalle del Gazarino, conduce alla chiesetta di San
Giovanni, alle falde del monte. Dopo una lunga arrampicata per il sentiero scosceso, arrivammo a Cesa
Paradiso, un luogo dove l’ambiente, di natura carsica e prettamente rocciosa,
concede un poco di spazio a piccoli fazzoletti di terra coltivabile,
comunemente chiamati cese. Da questi
mini appezzamenti, un tempo, alcune
famiglie abbienti cercavano di ricavare
il minimo per sopravvivere.
In uno di quegli spiazzi erbosi, ci
sistemammo, tirando fuori le nostre dolci vettovaglie, sistemandole sopra fogli di cartapaglia o di fazzolettoni.
Seduti in cerchio, a vicenda scrutavamo con curiosità ed interesse quello che
veniva fuori dai fagottelli degli altri compagni. Ricordo ancora il profumo ed il sapore indimenticabile di quei dolci, fatti dalle mani premurose
delle nostre madri. Sapori che si provavano
soprattutto nel periodo pasquale.
Profumi che nell’approssimarsi della festa, salivano dai forni e si spandevano
nell’aria.
Iniziammo il convivio, scambiandoci gli
assaggi e complimentandoci a vicenda.
Quell’abbuffata di roba dolce capitava solo a Pasqua, per cui cercavamo
di godercela al meglio.
Ad un certo momento, uno dei ragazzi più
grandi disse:
- wajù,
volimo i a Muro Pezzuto, a vedé la bomba?
Muro Pezzuto è una zona del Monte Arunzo
distante alcune centinaia di metri a nord-ovest di Cesa Paradiso e dove spesso,
di sera, si lasciavano i muli a pascolare durante la notte, per poi recuperarli al mattino seguente. In quel posto, come raccontavano alcuni
giovani mulattieri, c’era una bomba d’aereo, di piccole dimensioni,
inesplosa.
La proposta
venne accettata da tutti e, finita la nostra merenda ed i nostri
giuochi, ci avviammo verso il luogo della bomba, seguendo Michele che
conosceva il percorso. Arrivati a
destinazione, scorgemmo l’ordigno
disteso al sole su un piccolo spiazzo tra gli scogli. Eravamo tutti
abbastanza emozionati e timorosi. Mamma mia! Una bomba vera che faceva paura
solo a guardarla. Mi tornò in mente lo
scoppiettare dei colpi della contraerea che spesso entrava in azione durante il periodo bellico, e quelle numerose
nuvolette che apparivano in cielo, al
disopra del monte; noi bambini le guardavamo senza timore, ma le mamme ci
richiamavano a casa, temendo che qualche scheggia potesse piovere sulle nostre
teste. Probabilmente quella bomba era
stata lanciata in una di quelle occasioni.
Avanzammo verso di essa per guardarla meglio,
da vicino. Gigino de Cabbulente, che era il più informato, intraprendente e
spericolato, ci fece notare che la bomba
aveva il percussore completamente deformato; evidentemente nell’impatto,
strisciando contro le roccia esso si era piegato lateralmente, senza poter
penetrare verso il detonatore e far esplodere l’ordigno. Da debita distanza, riparandoci dietro spuntoni di roccia, iniziammo a lanciarle delle grosse pietre, pensando di poterla far esplodere.
Benedetta incoscienza ed ignoranza; non
avevamo la benché minima idea degli effetti di un’eventuale esplosione.
Credevamo che l’unico effetto pericoloso
fossero le schegge, non
considerando lo schiacciamento
che l’enorme spostamento d’aria avrebbe
procurato su di noi, facendoci volare in
aria. Comunque, nonostante i numerosi colpi andati a segno, la bomba restava
immobile, quasi a sfidare la nostra testardaggine. Il solito Gigino lanciò la proposta:
- andiamola
a gettare giù dalle rocce, sopra la
Piava.
- ma
che sei matto? Vuoi che ce la incolliamo fino la sopra? Ma poi se esplode fa un
botto enorme e distrugge un sacco di pini; e poi ci scoprono e i carabinieri ci
portano carcerato.
- ma
che! La bomba non è tanto grande, e farebbe un botto come quelli che fa
Jacoboni di Tagliacozzo alle feste di settembre. Dai, facciamo un po’ per uno.
Così dicendo, si caricò sulla spalla la
bomba, che poteva pesare una quindicina di chili.
Tutti più o meno convinti sulla fattibilità
dell’impresa e sulla non pericolosità di quel carico, tornammo indietro per lo
stesso percorso, alternandoci nel trasporto.
Oltrepassata Cesa Paradiso, arrivammo all’altezza delle rocce, in
prossimità de ” jo Pass’ ‘e jo lebbere”.
Qui posammo a terra il carico ed indugiando,
in un momento di riflessione.
- Che
si fa?
- Dai,
butta giù!
Lasciammo cadere la bomba dalla sommità del
Passo del lepre, un canalone attraverso il quale si poteva, con una certa abilità, scendere giù nella pineta.
Tutti ci gettammo a terra, ma la bomba impattò a metà strada senza esplodere.
Ormai si poteva dire che era stata collaudata. Non c’era pericolo che
esplodesse.
Scendemmo lungo il passo tra le rocce e
raggiungemmo l’ordigno e gli facemmo terminare
la caduta fino in fondo, alla base delle rocce stesse.
- E mo,
che facciamo? Ci domandammo.
Il solito temerario e spericolato Gigino se
ne uscì con una delle sue strane e strampalate proposte, da incosciente
artificiere in erba:
-
Sapete che faccio? Mo me la porto a casa, la taglio con la sega da ferro…, tiro
via la polvere e porto la bomba vuota a jo cinciaro e ci
rimedio un bel po’ di soldi.
- Ma
che, sei pazzo? Prima di tutto è veramente pericoloso e poi, pensi di poterla aprire come ‘na cococcia?
-Ma non
state a preoccuparvi ché ci penso io; ci provo.
La trasportammo, ancora a spalla, scendendo
giù, tra i pini, verso il paese.
Arrivati sulla strada, vicino le stalle
del Gazarino, togliemmo un filo di ferro
da una siepe a ci agganciammo la bomba per il codolo, per poterla trascinare.
Gigino abitava non lontano da dove eravamo.
Trascinammo quell’ordigno per tutta la discesa, fino a Pitori, come se fosse un
pezzo di legno, uno di quei ciocchi
che radunavamo davanti alla
chiesa, per il fuoco di Natale.
Quando fummo nell’abitato, alcune donne che
passavano, alla vista di ciò che
trascinavamo, con le mani nei
capelli gridavano:
- Madonna
mé! Sant’Antonio mi!... Ma che sete pazzi!?... Brutti lazzaruni, se ‘ssa
cósa scoppia ci ammazza a tutti!
Portetela via! Lontano! Madonna mé,
Madonna me aiutaci!
Ma noi proseguivamo, tanto Gigino abitava a
due passi. Lasciammo Gigino e la sua bomba nel cortiletto davanti casa sua,
tornandocene, con qualche perplessità, alle nostre case.
Naturalmente il nostro artificiere in erba
non riuscì nel suo intento e non so neppure quale fu la reazione dei genitori
alla vista dell’oggetto; lui era abbastanza avvezzo a prenderle di santa
ragione dai suoi, per quante era solito combinarne. Sta di fatto che dopo
qualche tempo, era arrivato lo stracciarolo; si era sistemato nello slargo
davanti la scuola, come facevano solitamente
i venditori ambulanti di allora: gli spezini, i venditori di pignate di
terracotta, venditori calzature ecc..Gigino tentò di vendergli la bomba così
come stava. Chiaramente l’uomo, scuotendo la testa, gli fece capire quanto
quella proposta fosse da matti.
Accidenti, e adesso che fare di quell’ingombrante
fardello? Il roveto della scarpata sottostante fu il rimedio temporaneo. Vi fu
gettata e vi rimase per qualche tempo, finché un giorno, alcuni compagni,
ignorando che nel roveto c'era una vi
avevamo appiccato il fuoco. Tra
il fumo e le fiamme intravidi e
riconobbi la bomba e questa volta ebbi veramente paura che potesse esplodere,
proprio vicino alla chiesa; rimediai una
lunga pertica e con essa la tirai fuori dal fuoco.
Non saprei dire quali altri percorsi fece, ma
ricordo che rimase per molto tempo
presso la stradina che conduceva giù alle casette del Fossetello; a quel tempo non esisteva ancora il muro di
sostegno del piazzale. Giaceva lì, dentro l’alveo del fossetello che correva
lungo le casette, tra l’ignorante indifferenza della gente.
La notò, finalmente, un capitano
dell’esercito che, essendo sposato con una donna originaria del luogo,
trascorreva le sue vacanze estive nel nostro paese.
Meravigliatissimo del fatto che un tale
pericoloso ordigno potesse essere abbandonato in quel modo, avvertì
immediatamente i carabinieri affinché provvedessero a rimuoverla e farla
brillare in una zona lontana e sicura.
Quel giorno noi ragazzini eravamo in giro
nella zona di San Rocco, che a quel tempo era quasi completamente abbandonata
e disabitata; notammo due carabinieri
che passavano, sulle loro classiche biciclette nere marca Bianchi, diretti
verso Tagliacozzo. Appesa alla canna di una delle biciclette c’era una grossa
borsa rigonfia. Stavano trasportando la nostra bomba per l’ultimo tratto della sua storia.
Dopo un’oretta circa, si udì in lontananza
una cupa esplosione; la bomba era stata fatta esplodere all’imboccatura della grotta di Beatrice
Cenci.
Noi ragazzi
ci sentimmo quasi in dovere di
andare a fare un sopralluogo. Sul posto ritrovammo, con una certa
emozione, alcune schegge della nostra bomba, da tenere come cimelio.
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