giovedì 30 luglio 2015

I briganti della Marsica, di Alessandro Fiorillo

Quante volte abbiamo sentito parlare dei briganti, di questi personaggi circondati spesso da un aura quasi leggendaria, che nel corso dei secoli, soprattutto nel XVI e nella seconda metà del XIX sec., hanno costruito la loro fama passando per una successione di imprese criminali, talvolta legate a confusi ideali politico-sociali. Da Marco Sciarra alle Bande Pastore, Mancini e Chiavone, la Marsica e la Valle Roveto sono state uno dei teatri privilegiati e più battuti dalle “soldataglie” irregolari di un esercito borbonico in rovina, che attraverso scontri con le truppe piemontesi e scorribande nei diversi paesi della Conca Fucense e del Cicolano, hanno consolidato e accresciuto la fama dei loro capi-briganti combattendo una guerra che per quanto abbia messo spesso in seria difficoltà i nuovi tutori dell’ordine, restava una guerra persa in partenza.


LE ORIGINI…MARCO SCIARRA

Era l’autunno del 1590 e in Roma i cardinali erano riuniti in conclave per eleggere il successore di Urbano VII (1). Da giorni circolava incessante una voce, quella che un gruppo di agguerriti banditi era pronta ad entrare nella città pontificia per ricattare e interferire sugli esiti delle scelte dei cardinali. In effetti da tempo alle porte di Roma scorrazzavano due formazioni di fuorilegge, protagoniste di saccheggi e tumulti, alla cui testa vi erano i più celebri capi-banditi dell’epoca: Marco Sciarra (2) e Battistello da Fermo. Il primo era abruzzese, “homo, benché di vil condizione, d’animo e di spirito elevato” come ebbe a dire Tommaso Costo, scrittore napoletano del tempo. Lo Sciarra si fece brigante nel 1584, e fin da subito, grazie alla sua forte personalità e a un notevole ascendente, si pose a capo di una banda composta da un migliaio di uomini. Riuscì a scampare ad ogni tentativo di repressione per lunghi sette anni, nel corso dei quali fu protagonista di decine e decine di azioni criminali. Partendo dall’Abruzzo, l’esercito dello Sciarra entrava di frequente nel territorio dello Stato Pontificio, dalle Marche alla campagna romana. Lo storico Rosario Villari ha teso a sottolineare il fatto che quella di Marco Sciarra più che “un accolta di fuorilegge disperati…era una vera e propria formazione di guerriglieri”. Luogotenenti dello Sciarra erano Pacchiarotto, il già citato Battistello da Fermo e il fratello Luca Sciarra. Tutti coloro che volevano unirsi alla banda, ricevevano regolare paga, ma dovevano pure rispettare le norme di comportamento conformi all’ “ideale sociale” del capo. Si racconta che il famoso brigante abruzzese amava definirsi “Marcus Sciarra, flagellum Dei, et commissarius missus a Deo contra usurarios et detinentes pecunias otiosas”. E’ evidente un confuso riferimento ad un ideale sociale che portava lo Sciarra a combattere soprattutto quei rappresentanti del potere parassitario responsabili dei mali del popolo minuto. Del resto dagli stessi documenti dell’epoca traspare questo atteggiamento da Robin Hood dello Sciarra, che rubava ai ricchi per donare ai poveri, operando una redistribuzione della ricchezza a vantaggio delle classi disagiate. Non mancarono le azioni della banda orientate contro i soldati e gli ufficiali governativi del Regno di Napoli. Dopo diversi anni in cui godette dell’appoggio quasi incondizionato delle masse contadine, iniziò la fase decadente della famigerata banda, nel corso della quale questa finì per scontrarsi più volte con le stesse popolazioni che un tempo appoggiavano i banditi. Nell’aprile del 1592, mentre la banda si dirigeva verso Subiaco, chiese alle autorità di Cerreto Laziale l’autorizzazione a passare pacificamente per il paese. Il permesso non fu concesso, e i banditi incendiarono alcuni casolari e misero la zona sotto assedio. I cerretani, con il concorso di altri uomini armati provenienti dai paesi vicini, decisero di finirla con la banda dello Sciarra, e grazie ad uno stratagemma ebbero la meglio. Legarono un supporto con materiale infiammabile alle zampe posteriori di una gatta (3), trasformandola suo malgrado in “Kamikaze” da gettare all’interno dei fienili dove i banditi, accampati, dormivano. I briganti furono vinti, ma presto l’incendio divenne incontrollabile, e finì per minacciare l’intero paese. I cerretani invocarono la grazia di Sant’Agata, che si diceva aveva già fermato in Sicilia la lava dell’Etna, e miracolosamente l’incendio non si propagò alle case, e il paese si salvò. Marco Sciarra nel frattempo, sopravvissuto allo scontro con i cerretani, passò con trecento compagni al servizio della Repubblica di Venezia per combattere gli Uscocchi. Clemente VIII montò su tutte le furie, e ingiunse ai veneziani la consegna del bandito. Questi, dopo alcune resistenze, cedettero. Marco Sciarra, comprese allora di essere stato scaricato dai lagunari, che si accingevano, attraverso l’inganno, a consegnarlo alle truppe pontificie. Si diede così di nuovo alla clandestinità, e tornò nello Stato Pontificio. Sembrava invincibile, inafferrabile, ma nel 1593, vicino ad Ascoli, venne ucciso a tradimento dal compagno Battistello da Fermo, che in cambio del servigio reso ottenne la grazia dal governo papale.


IL BRIGANTAGGIO POST-UNITARIO

Quella fin qui descritta la vicenda di Marco Sciarra, il primo dei briganti dell’età moderna. Il fenomeno del brigantaggio si riaccese e visse una fase molto intensa nel corso del periodo post-unitario, quando si diffuse ampiamente nell’Italia Meridionale, compreso il territorio abruzzese. Si è discusso a lungo su quelle che possono essere state le motivazioni e le cause della nascita di questo movimento confusamente politico, di ribellione al nuovo ordine piemontese percepito come estraneo. L’Abruzzo e la Marsica negli anni della proclamazione del Regno d’Italia, si trovavano in una situazione politica e sociale difficile e precaria. La cultura era appannaggio di pochi, la maggior parte della popolazione era analfabeta e dedita all’agricoltura e alla pastorizia. Se alcuni avevano riposto delle speranze nel cambiamento susseguito alla caduta borbonica, ben presto rimase deluso, ed i piemontesi invece che liberatori furono percepiti come invasori. Ci furono rivolte e sommosse nei paesi di S.Vincenzo e S.Giovanni nella Valle Roveto, Civitella Roveto, Luco dei Marsi, Tagliacozzo, Petrella, Cappadocia, Villa S.Sebastiano, Avezzano, Celano, Scurcola, Trasacco, Collarmele, Pescina e il Carseolano. In questi difficili anni il brigantaggio di divise in due tronconi, quello delle sommosse organizzate a scopo politico e quelle che avevano come scopo il furto, la rapina, e la restaurazione della dinastia Borbonica.


EROI POPOLARI O BANDITI INCALLITI?

Anche in questo periodo, come fu per quello dello Sciarra, piuttosto sottile e ben poco evidente è la linea di demarcazione che distingue il brigante-eroe popolare dal brigante bandito incallito e senza scrupoli. Molto spesso gli eserciti piemontesi si comportavano con le popolazioni locali ben peggio di quanto facessero gli stessi briganti, ai quali invece serviva il favore e l’appoggio della gente locale, dell’ambiente nel quale si muovevano e agivano.

Numerosissime sono le azioni “brigantesche” di questi anni. Memorabili le scorribande della banda Borjes, il cui capo era Borjes Dom José della Catalogna (Spagna), venuto in Italia per combattere a favore della causa borbonica. Dopo una lunga serie di azioni, nel mentre la banda si accingeva a raggiungere lo Stato Pontificio (4), e percorreva la strada da Paterno a Scurcola Marsicana, sopraggiunse, nella mattina dell’8 dicembre 1861, il battaglione bersaglieri comandato dal maggiore Franchini. La battaglia fu violenta, Borjes fu colpito a morte dal Franchini, e gli altri briganti della banda furono catturati e fucilati nella piazza di Tagliacozzo. Altro famoso capo-brigante fu Luigi Alonzi, detto Chiavone, originario del sorano. Compì la maggior parte delle sue azioni nella Valle Roveto; autoproclamatosi Generale delle armate di Francesco II, compì numerose rapine ed angherie, e non vi è notizia certa della sua fine (5). Il brigante Domenico Cajone di S.Demetrio dei Vestini, ex bersagliere, aderì invece alla banda Mancini, e fu fucilato in Luco dei Marsi il 6 aprile del 1862, insieme al brigante Luigi Ciavarella di Scurcola Marsicana. Altro capo molto noto fu Domenico Coja, forse originario di Pescina. Fu soldato borbonico, e venne arrestato in Roma in un osteria frequentata da briganti marsicani. Di lui si persero le tracce. Ci furono persino parecchi sacerdoti briganti nelle nostre terre, come Don Antonio Cesta, sacerdote di Collelongo, che fece parte della banda di Vincenzo Matteo e fu consigliere e aiutante del capobanda Chiavone. Provocò diversi disordini, e una volta scoperto si rifugiò in meditazione presso il convento dei Cappuccini di Luco dei Marsi, ma non sfuggì all’arresto. Altri briganti prelati furono il frate cappuccino De Filippi di Collelongo, Don Corretti Arciprete di Tagliacozzo, il frate Bonaventura di Balsorano, il parroco di Civitella Roveto, e molti altri ancora. E la lista dei briganti che operarono nella Marsica continua con Antonio Maccarone, che operò soprattutto dalle parti di Secinaro, e fu particolarmente noto per il suo odio per i baffi alla piemontese (6). Nel corso delle sue scorrerie, quando incontrava qualcuno che osava sfoggiare un bel paio di baffi alla Vittorio Emanuele, non esitava a torturarlo, strappandoglieli. Quando fu catturato, prima di essere fucilato il 19 aprile 1862 a Sessa Aurunca (Caserta), gli furono strappati barba e baffi pelo per pelo. Ancora per diversi anni dopo la sua morte, nei territori dove operò, a coloro che portavano i baffi veniva detto per scherzo: “attento che arriva Maccarone!”. Altre fucilazioni di briganti si ebbero a Castellafiume, dove il 6 novembre 1862 vennero giustiziati alcuni componenti della banda Pastore (7) e a Cappadocia, dove il 18 agosto 1861 vennero fucilati il brigante cappadociano Antonio Coletti e quello di Pietrasecca Domenico Spacconi. Famoso fu pure il brigante Viola, originario del Cicolano, che firmava le sue azioni con una viola e un santino di S.Berardo (8), e di cui si ignora la fine (9). E possiamo concludere con Giacomo Giorgi, brigante di Tagliacozzo, autore di diversi assalti e scorrerie. Con la sua banda, partendo dai monti di Filettino e passando attraverso la Valle del Liri, invase Luco dei Marsi, e poi assaltò Cese, frazione di Avezzano. Nel corso di questo assalto rimase però ucciso uno dei capi briganti, colpito da una fucilata sparata dal parroco di questo paese, che costrinse i malviventi alla fuga. Giacomo Giorgi morirà nel 1877 nel penitenziario dell’Isola d’Elba, dove scontava una condanna a venti anni di lavori forzati. Ed è ancora lunghissima la lista con altre fucilazioni a Pereto, Oricola, Capistrello, Avezzano, Luco dei Marsi, ecc..


CONCLUSIONI

Insomma, il brigantaggio nelle nostre terre fu un fenomeno esteso e radicato, segno di una sofferenza profonda delle nostre genti. Questo venne alla fine debellato, e spesso finirono per essere coinvolte nella repressione persone che non avevano nulla a che fare con i banditi. La storia d’Italia è passata anche attraverso avvenimenti cruenti e dolorosi, come questi relativi alla vera e propria guerra o guerriglia che si è combattuta nella Marsica tra l’esercito del Regno d’Italia e quei contadini, pastori, delinquenti comuni, ex soldati borbonici e renitenti alla leva che sono passati alla storia come i briganti.

Avit’paura de li brigant’ alla mundagne, ma nu’jurne, dapuò, vui li portiss’li sordi allj br’gant sedut’ alla seggie (detto abruzzese) (10)
 


NOTE:


(1) Succeduto a Sisto V, e sul soglio pontificio per appena 12 giorni.

(2) Conosciuto anche con l’appellativo “Re di Campagna”, per le sue numerose imprese nel territorio pontificio.

(3) Alcuni anni fa alcuni artisti hanno dedicato un monumento in bronzo a questa gatta che salvò Cerreto Laziale.

(4) Lo Stato Pontificio forniva spesso appoggio logistico alle bande di briganti, chiaramente in funzione antipiemonetese.

(5) Sembra che morì nel corso di uno scontro a fuoco contro i militi regi nei pressi di Villavallelonga.

(6) All’epoca venivano portati dai liberali.

(7) Della banda Pastore facevano parte alcuni briganti di Pagliara dei Marsi. A Castellafiume il 6 novembre 1862 fu giustiziato lo stesso capobanda, Luca Pastore, soprannominato “il terrore della Majella”.

(8) Allegorie del suo nome, Berardo Viola.

(9) Le ultime notizie certe lo vogliono rinchiuso a Palermo nel 1870 all’interno di un carcere pontificio.

(10) Avete ora paura dei briganti alla macchia, che vi vengono a prendere i soldi, ma un giorno, poi, i soldi li dovrete portare al suo domicilio dove vi aspetterà, seduto alla sedia.




BIBLIOGRAFIA:


Paola Staccioli, I briganti della campagna romana,1966.

Luigi Torres, Tre carabinieri a caccia di briganti nell’Abruzzo postunitario (1860/1870), Adelmo Polla editore.

C. Stecchetti, Storie di briganti nel meridione d’Italia, Adelmo Polla editore.

Ezio Del Grosso, Pagliara Dei Marsi dalle origini ai giorni nostri.

I testi degli articoli di Diocleziano Giardini e Luigi Braccili contenuti all’interno del sito internet: www.terremarsicane.it
 

L'officina saltata in aria, di Gerardo Rosci

Quello nella foto è il canale che trasportava parte dell'acqua del Liri dalla sorgente all' "officina" che generava la corrente elettrica per tutto il territorio comunale e che venne fatta saltare in aria dai tedeschi durante la ritirata.
Ricordo che quel giorno un paio di aerei gettarono un paio di bombe intorno a Cappadocia.
Noi a Petrella fuggimmo da casa, tutti terrorizzati, correndo fuori dal paese; con quelli della mia zona del paese stavamo fuggendo verso il monte Arunzo. Proprio mentre ci stavamo inerpicando sul sentiero pietroso, si udì un'enorme deflagrazione proveniente dal fiume. Un'altissima colonna di fumo e fiamme si era alzata verso il cielo. La gente urlava di paura raccomandandosi alla Madonna od ai santi. Il fumo si disperse e l' officina apparve nella sua spettrale desolazione; era saltala in aria ed i nostri paesi restarono senza corrente e, di conseguenza, senz'acqua.
In merito a quegli anni, questo è quanto emerge dai miei ricordi di bambino di allora: Petrella fu occupata dai tedeschi che fecero il loro quartier generale nella palazzina dei Basile, un’ abitazione molto grande, con accesso diretto alla strada che attraversa la valle di Nerfa e quindi adatta allo scopo. Questi avevano occupato anche un altro villino nelle vicinanze, una palazzina in piazza Vittorio Veneto, l’edificio scolastico ed alcune case non abitate nel centro del paese. Presso Piazza Centrale, alloggiarono anche dei soldati polacchi. Questi ultimi, contrariamente ai tedeschi, erano abbastanza socievoli con i paesani; noi bambini spesso andavamo sotto le finestre, chiamandoli a gran voce, per farci gettare giù qualcuna di quelle loro orribili gallette dal sapore stantio e rancido. Ma a quel tempo si mangiava di tutto, e una galletta, anche se di sapore sgradevole, dava a noi bambini, l’illusione di assaporare un dolce biscotto.
Sotto le rocce del monte Arunzo in località Santo Pietro era sistemato il deposito delle munizioni e dei carburanti, che servivano per il rifornimento delle guarnigioni che erano d’istanza a Montecassino. Quando i tedeschi si ritirarono, rimasero sul posto un enorme numero di fusti di benzina vuoti. Erano di lamiera zincata e spessa, rinforzati da due robusti cerchi in ferro. Tutti gli abitanti di Petrella si affrettarono ad accaparrarseli; erano utilissimi per numerosissimi usi. Anche da casa mia accorremmo: io, mio padre e le mie due sorelle maggiori. In quel terreno sotto strada, proprio davanti la fonte di Santo Pietro, di fusti ce ne erano tantissimi. Ricordo che alcuni erano trapassati da proiettili. Certamente erano la conseguenza dell’avvenimento di una di quelle notti che precedettero la ritirata. Io non la vissi personalmente, perché dormivo il sonno degli innocenti; la vissero, per così dire, le mie sorelle e mia madre. Raccontavano che la valle era completamente illuminata dai bengala; gli aerei alleati volavano a bassa quota e il rumore delle armi da fuoco si mescolava al rombo degli aerei. Le mie sorelle urlavano terrorizzate; erano convinte che fosse giunta la fine del mondo, così come l’avevano appresa dagli insegnamenti religiosi di allora: “…fiamme di fuoco scenderanno dal cielo…la valle di Giosafat ecc…

- Mamma aiuto, mamma corri, vieni, vieni a morire qui insieme a noi!

Mio padre scelse e mise da parte cinque o sei di quei fusti; ognuno di noi ne prese uno facendolo rotolare a spinta verso il paese. Anch’io mi portai avanti il mio, nonostante avessi solo poco più di sei anni, ma a quell’età, a quel tempo, si era quasi adulti. Proseguivamo come in processione. Qualcuno, giovane e robusto, se ne spingeva avanti due. Chi aveva il carretto se ne caricava direttamente cinque o sei. Sembravamo tante formiche che spingevano avanti i lori chicchi di grano. E proprio per conservare il grano, molti di quei fusti vennero poi utilizzati. Altri come cassoni dell’acqua o come tinozze per il bucato. Quell’anno, Alfredo il fabbro ferraio, si ritrovò da svolgere un sacco di lavoro: togliere i cerchi dai fusti, aprire gli stessi fusti con martello e scalpello per farne uno grande o due più piccoli, e munirli, eventualmente, di manici ecc.. Di recipienti ce ne era gran bisogno; non era stata ancora scoperta la plastica, e quelli erano veramente utili e resistenti.
I cerchi, robusti e pesanti, venivano riciclati per realizzare qualche inferriata o come travetti in qualche opera muraria. Noi ragazzi ci giocavamo, facendoli rotolare per le strade; altri giocattoli non ne avevamo.



Gerardo Rosci




Il Grifone



“Ho visto i grifoni, per la prima volta, sei anni fa. Era Febbraio, come adesso, ma non c'era la neve.
Lo ricordo bene quel freddo pomeriggio sulla strada che va da Cappadocia a Castellafiume e taglia a metà i monti che proteggono la dolce e silenziosa Valle di Nerfa.
Ero in macchina e li ho visti volare su di me... Il grifone non è un uccello che vola: il grifone "è" il volo.

E' talmente grande che riesce con difficoltà a decollare, ha bisogno di sfruttare le correnti ascensionali calde per potersi librare.
Ma quando è in aria...
Non c'è nulla che possa paragonarsi al volo dei grifoni. Sembra che cielo, vento e sole si uniscano a dare il massimo per rendere spettacolari i volteggi, le spirali e le planate di questo vero, immenso, signore dell'aria.
Chi non ha mai visto un grifone nel cielo non può sapere veramente cosa sia il volo.
E come meravigliosi aquiloni viventi li vede probabilmente mio figlio, che si diverte a controllare, ogni volta che andiamo in quelle zone, se i grifoni sono sempre lì, su quelle rocce senza età, e quanti sono.
Chissà se li vedremo ancora a lungo? Spesso li trovano a terra, senza vita, avvelenati. Forse il mondo è troppo piccolo per animali così grandi e liberi. Piccolo come il cervello di chi li uccide, e gioca crudelmente con un mondo che è anche suo.”

Gabriele Ciutti (articolo pubblicato sul quotidiano Il Tempo, e sulla “Rivista dei Parchi”)



Gyps Fulvus è il nome scientifico del grifone, un avvoltoio che può raggiungere il peso di 9-10 chilogrammi e una apertura alare variabile dai 240 ai 280 centimetri. Il piumaggio si caratterizza per il colore bruno fulvo e per la punta delle penne di colore nero. Caratteristiche sono le penne che ricoprono la testa: brevi, setolose e biancastre. Le piume situate alla base della testa formano il tipico collare che, nei giovani, ha un colore marrone e negli adulti bianco. Non esiste dimorfismo sessuale e quindi maschio e femmina non sono immediatamente distinguibili.


ABITUDINI:

E’ un animale gregario che vive e si sposta in colonie numerose. Nei momenti di riposo e nella fase di nidificazione è essenziale per il Grifone poter disporre di  pareti rocciose poco accessibili, circondate da praterie e pascoli con disponibilità di cibo non indifferente.


LA RICERCA DEL CIBO:

Avvista il cibo, grazie alla sua vista acuta, durante i voli di perlustrazione. I diversi individui si tengono in contatto visivo e, appena uno di loro avvista una carcassa e scende a terra, gli altri lo seguono per andarsi a riunire in gruppo sul terreno e partecipare tutti insieme al prelibato banchetto. Le fonti di alimentazione sono carcasse di animali selvatici (cervi, caprioli, camosci, cinghiali e altro) e animali domestici (equini, bovini, ovini e caprini). Quindi, chiariamo una volta per tutte, affermare che il Grifone arreca danno agli allevatori e agli agricoltori è falso, perché, nutrendosi di animali morti, evita piuttosto che si diffondano malattie e può considerarsi un vero e proprio “spazzino” delle montagne.


LA COLONIA DEL MONTE VELINO:

E’ costituita da circa 80 esemplari. Il reinserimento ha avuto pieno successo, e grazie alla riproduzione la popolazione è in aumento. Un ricercatore del Centro Studi ha confermato che durante il controllo della colonia di grifoni è stato avvistato un esemplare dotato di un anello di riconoscimento non usuale; un più accurato controllo della tipologia dell’anello e della sua sigla ha permesso di identificare quell’esemplare come un Grifone proveniente dalla Croazia, a riprova delle lunghe distanze che riescono a coprire questi rapaci. Questo Grifone “croato” è entrato a far parte a tutti gli effetti della colonia del Monte Velino.

  
DA DOVE PROVENGONO:

Gli animali liberati sul Monte Velino e nella Valle del Sagittario (tra Anversa degli Abruzzi e Scanno), provengono quasi tutti dai centri specializzati di diverse località spagnole: Extremadura, Catalogna, Navarra e Aragona, Castilla La Mancha.
  

DURANTE L’INVERNO:

Durante l’inverno il clima sfavorevole rende difficoltoso il reperimento del cibo da parte dei grifoni. Sono stati, quindi, predisposti dei punti di alimentazione necessari per garantire il cibo durante questo periodo dell’ anno. Gli stessi punti di alimentazione funzionano anche durante le fasi della reintroduzione, per garantire il cibo in attesa che i Grifoni diventino padroni del territorio. Queste attività, insieme a quella di attenta sorveglianza del territorio, le si debbono alla presenza delle strutture del Corpo Forestale dello Stato, coadiuvate da personale specializzato e da ricercatori. Queste strutture, visto il successo della reintroduzione, dimostrano di essere valide ed efficienti. Molto influisce anche la motivazione e la determinazione di queste sentinelle della natura: i Forestali e i ricercatori che con loro collaborano.


LA STORIA:

In Italia e nell’Appennino centrale la specie si è estinta prima del diciannovesimo secolo. Le cause sono diverse, dalle uccisioni dirette al prelievo dei giovani dal nido per scopi alimentari. Un fattore determinante, poi, è stata la diminuzione del pascolo brado e una maggiore sorveglianza del residuo bestiame pascolante, per cui anche i capi morti difficilmente potevano essere raggiunti dai grifoni. Quest’ ultimo aspetto, cioè la diminuzione del bestiame allevato a pascolo brado, è strettamente legata ai profondi cambiamenti che, in Abruzzo, ha subito l’ economia tradizionale, un tempo largamente basata, oltre che sull’agricoltura, sulla pastorizia.


IL FUTURO:

Per quanto riguarda il futuro abbiamo accennato alla iniziativa del reinserimento della specie, che procede con successo. Questo reinserimento fa parte del “progetto grifone”, che segue a quello della reintroduzione del corvo imperiale nell’ area del Monte Velino. Il “progetto grifone” coinvolge il massiccio del Monte Velino e la Valle del Sagittario, dove esistono delle condizioni favorevoli e delle similitudini con l’ area del Velino, per la quale si è passati dalla liberazione dei primi esemplari, sei anni fa, alla situazione attuale che ha visto la creazione di tre colonie di grifoni. Si può affermare che, visto anche l’ interscambio di individui fra le varie colonie, gli animali si sono inseriti molto bene nel contesto ecologico ed ambientale e, per quanto concerne l’ incremento delle colonie nell’ anno 2000, si è ottenuto un buon successo riproduttivo con l’ involamento di sei giovani grifoni. Dal vicino Velino diversi esemplari sono venuti a nidificare sul Monte Arunzo, nei pressi di Petrella Liri e Cappadocia, ed altri sono stati avvistati anche sui Simbruini.


ULTERIORI NOTIZIE SUI GRIFONI:

La reintroduzione del Grifone nell’Appennino centrale rientra nell’ambito di una serie di iniziative attuate dal Corpo Forestale dello Stato finalizzate alla ricostituzione delle reti trofiche naturali necessarie per il riequilibrio degli ecosistemi naturali. Gli animali liberati sono quasi tutti esemplari prelevati nei centri specializzati di varie località della Spagna (soprattutto Extremadura, Catalogna, Navarra e Aragona, Castilla La Mancha). Il “progetto grifone” ha riguardato, in tempi diversi, più di un’area delle montagne d’Abruzzo (tra cui la Majella, dove ora la specie è presente con una discreta popolazione). In questo caso, oltre al massiccio del Monte Velino, il progetto ha coinvolto anche la Valle di Nerfa a Petrella Liri (Cappadocia) dove sul monte Arunzo vive una colonia di circa venti esemplari. Qui le condizioni ambientali sono favorevoli, e paragonabili a quelle che sul Velino e nelle aree limitrofe hanno portato, nel giro di soli sei anni dalla prima liberazione, alla creazione di tre colonie, con interscambi di individui tra le colonie stesse. Gli animali si sono ben inseriti nel contesto ecologico ed ambientale, con un buon successo riproduttivo. Tra gli elementi di valutazione presi in esame per l’avvio del progetto hanno avuto particolare rilievo: 

* le condizioni ambientali, ritenute pienamente rispondenti alle esigenze della specie, come hanno confermato, tra l’altro, vari autorevoli esperti anche di fama mondiale che hanno visitato le zone del Velino (p.e. D. Huston); 

* l’allevamento di numerosi capi di bestiame domestico, diversi dei quali tenuti allo stato brado per tutto l’anno; la presenza di discrete popolazioni di ungulati selvatici, tra i quali il cinghiale ed il cervo; 

* la presenza del lupo, che preda gli ungulati selvatici, ed a volte il bestiame domestico, lasciandone spesso abbondanti resti, e favorendo in ciò le possibilità alimentari del grifone; 

* l’esistenza di una valida rete di aree protette, all’interno delle quali i grifoni godono della tranquillità e della protezione necessarie. Infatti si hanno segnalazioni certe e ripetute circa l’avvistamento di grifoni dal Gran Sasso fino al Monte Marsicano, dai Simbruini laziali ai Monti Lepini e sulla Majella

* la presenza di valide strutture di gestione del Corpo Forestale dello Stato che, oltre ad esercitare un’attenta sorveglianza del territorio, cura anche, con personale specializzato, la gestione dei punti di alimentazione, necessari per garantire quella disponibilità alimentare che è indispensabile per favorire la formazione di colonie numerose ed evitare una esagerata dispersione.


Avvoltoio di grandi dimensioni, inconfondibile per le sue caratteristiche peculiari, sia in volo che a terra. Può raggiungere la lunghezza di 105 cm. e un peso di 6-7 kg. Le ali larghe e lunghe, con le remiganti primarie "aperte", che formano delle estremità arrotondate, coda quadrata e corta, fanno si che il grifone sia ben distinguibile dai suoi congeneri per la silhouette del volo. È il più grande uccello d'Italia: ha un'apertura alare che può raggiungere i 250 cm e questa caratteristica gli permette di sfruttare in modo eccezionale le correnti, che gli consentono di veleggiare a lungo senza grande dispendio di energie (può raggiungere anche i 5000 m di altezza). Ha una vista così acuta che gli permette di distinguere un topolino fermo da 1000 metri di altezza. Il colore predominante del piumaggio negli adulti è il grigio-sabbia, più scuro superiormente e pallido nelle parti ventrali. Le remiganti primarie e le timoniere sono nere. Le parti inferiori delle ali sono caratterizzate da barre chiare. La testa e il collo sono "nudi", essendo ricoperti solo da un piumino biancastro, con un collaretto di poco più scuro, che costituisce uno degli elementi caratterizzanti per il riconoscimento di questa specie. La mancanza di piumaggio intorno alla testa e al collo, si giustifica, pare, con le abitudini alimentari di questo uccello che è quella di divorare le interiora delle carcasse di animali senza insudiciarsi le piume; Si nutre preferibilmente dei cadaveri di grossi mammiferi (evitando accuratamente di avvicinarsi ad animali vivi), che vengono ricercati in volo con la collaborazione di diversi individui: vari grifoni esplorano singolarmente porzioni diverse di territorio, rimanendo in continuo contatto visivo tra di loro; Gli è molto utile il becco uncinato per lacerare la pelle delle carcasse di cui prima dilania con il becco le interiora, poi la carne e infine la pelle; Quando un gruppo di grifoni giunge sulla carogna, non c’è spazio per nessun altro, nemmeno per altri avvoltoi. Per impressionare ed allontanare i rivali, il grifone utilizza svariate posture (gonfia il piumaggio, abbassa il collo e saltella sulle zampe) ed emette dei gracidii, dando luogo a delle vere baruffe in prossimità della carogna. Il grifone è un uccello gregario. Così come va alla ricerca del cibo in gruppi più o meno numerosi, anche la nidificazione avviene in colonie. Raggiunta la maturità sessuale a 4-5 anni, fra la fine di gennaio e marzo, iniziano le parate nuziali della coppia che consistono in lenti volteggi con picchiate verso il nido, la femmina depone un solo uovo, in genere di color bianco ma raramente può presentarsi anche macchiato di rossiccio, all'interno di un rozzo nido costituito da pelo, pelli e rami spezzati grazie al suo robustissimo becco, costruito su alti dirupi, in piccole nicchie, grotte e anfratti rocciosi per proteggersi dal caldo cocente se esposto a sud. Il nido è spesso posto nelle vicinanze di altri nidi. L'incubazione viene effettuata da entrambi i genitori e dura 54 gg. circa. Il piccolo alla nascita è ricoperto di piumino bianco e nutrito con cibo parzialmente digerito; solo più tardi i genitori provvedono ad alimentarlo con pezzi di carne che trasportano immagazzinata nel gozzo. Il piumaggio viene completato in circa 70 giorni e il primo volo può avvenire a 3-4 mesi, ponendo un'incognita e una seria ipoteca sulla sopravvivenza del giovane grifone, considerata la posizione in cui si trova il nido, cioè su alte pareti spesso a picco sulle rocce. Può avvenire infatti che una manovra maldestra, oppure un errore nella valutazione della direzione del vento, facciano precipitare il malcapitato. La sopravvivenza di questi uccelli è legata alla presenza in ogni periodo dell'anno, di mandrie o greggi allo stato brado. Dalla morte di alcuni capi di questi erbivori, non rimossi né sotterrati dall'uomo, traggono la loro esistenza questi rapaci. Considerato il basso successo riproduttivo ed il fatto che le coppie non si riproducono tutti gli anni la specie risulta particolarmente sensibile.

  
INDIRIZZI UTILI (emergenze grifoni):

• Comando Stazione Forestale di Magliano de’ Marsi
via S. Martino 10 - tel. 0863/517388

• Corpo Forestale dello Stato – Ministero Agricoltura e Foreste
via Nomentana 26 - Roma - tel. 06/4824765



domenica 26 luglio 2015

Miti, leggende e superstizioni dell'Abruzzo

Gli estratti che seguono (inerenti il nostro territorio) sono stati estrapolati dal testo G. Panza, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo. Studi comparati – Vol.I e II, Sulmona, Ubaldo Caroselli Editore, 1924 - 1927, ristampa anastatica a cura del Circolo Culturale Accademia degli Arditi di Sulmona e con il contributo dell’associazione Giovane Europa di Ascoli Piceno e del sig. Gianni Brandozzi (che ringrazio per la copia dei due volumi che mi ha donato).

Grazie ai contenuti delle ricerche di Giovanni Panza riaffiorano alcuni interessanti, inediti e spesso dimenticati aneddoti e racconti relativi al passato e al vissuto del nostro territorio.

 

La lucerna della Madonna  

In vicinanza di Petrella del Liri, nella Marsica, sul monte Arunzo, sopra una roccia altissima si vede una scoltura simbolica, chiamata La juma de la Matonna  (la lucerna della Madonna). Rappresenta uno schema di corpo umano femminile, con metà del profilo delle coscie e della colonna vertebrale. A parte sinistra si scorge un altro segno simbolico, come fatto a scalpello, nel quale i naturali del luogo ravvisano la figura d’una lucerna. La leggenda locale intorno a questa scoltura rupestre dice che la Madonna passò di notte sul monte Arunzo e vi riposò, mentre andava cercando il figliuolo Gesù che si era allontanato da tre giorni per andare a conferire coi Profeti (2).

Per l’inaccessibilità del luogo non mi è stato possibile fino ad oggi di osservare questi due importanti petroglifi, se non nello schizzo favoritomi dal sig. Blasetti. A titolo di semplice congettura si potrebbe ritenere che la figura schematica di sinistra rappresentasse la donna ignuda, simbolo dell’Asia Minore, che si rinviene anche nelle pareti delle grotte d’occidente. Il segno verticale, ricurvo all’estremità, definito per una “lucerna”, potrebbe rappresentare in questo caso, l’ascia immanicata, ovvero un segno pediforme (immagine del pedum), altro simbolo che accompagna la donna ignuda (1). (pagg. 149-149 Vol. I)



(2) Notizia comunicatami dal sig. Fabiano Blasetti di Petrella del Liri



(1) Déchelette, Manuel cit., I, 606 e seg. Intorno a queste rappresentazioni schematiche femminili sulle roccie, che, secondo alcuni, appartengono al periodo di transizione dall’età neolitica a quella del bronzo, ved. Matéraux pour l’histoire primitive de l’homme, an. 1888, pp. 12-15 – Cartailhac, La France préhistorique d’après les sépultures et les monuments, pag. 241-43 – De Baye, l’archéologie préhistorique, fig. 41.

 

Designazioni implicanti la qualità delle pietre

(Forma, colore, grandezza, posizione, attività naturale, ecc.)


25.) Pietra incatenata, grosso macigno sovrastante al villaggio di Pagliara, fraz. di Castellafiume, al versante merid. del monte Girifalco. Circà la metà di questo monte si osserva un masso superbo, della superficie di circa 10 m. q., il quale appare all’occhio del visitatore come campato in aria. S’immagini una grossa rupe fissa a metà del monte, sulla quale si distende, a guisa d’una coltre, un’altra grossa pietra dello spessore di oltre un metro e mezzo e di figura quasi rettangolare, da potersi ritenere scalpellata in tutte le parti del suo spessore. La pietra inferiore che regge quella superiore, rettangolare o squadrata, sembra quasi uscire dal paino di sotto a modo di una trave, la quale rasentando la pietra superiore a circa la metà, sostiene il piano superiore gettandosi fino a terra. Sul macigno soprastante è piantata una croce, quasi a simbolo di cristianizzazione (1). Questo stupendo e curioso gruppo monolitico ha il vero aspetto d’un dolmen e presso i naturali del luogo è circondato da leggende intessute dei soliti racconti di diavoli, fate, streghe. La sua struttura sembra artificiale, ma io non oserei ascriverlo alla serie dei monumenti megalitici, ma a quella dei pseudo-megaliti, di destinazione incerta, come i falsi dolmens di Mosny, presso la Roche (Lussembrurgo), quello di Tiaret, in Algeria, la cui tavola superiore, formata da un masso lungo m. 23, è scivolata sul declivio della montagna ed è venuta ad appoggiarsi sopra due sostegni naturali. Cfr. anche la Pietra pendula di Mompiatto, la Pietra nairola o noirola di Blevio.

Questi pseudo-megaliti potrebbero, secondo alcuni, essere stati utilizzati in origine come luoghi di ricovero o di sepoltura. Anche nel Belgio dei semplici lusus naturae furono scambiati per monumenti megalitici. Questi gruppi bizzarri, come le così dette pierres branlantes, ovvero roulers, secondo una felice definizione del Desmoulins, “appartiennent à la géologie par leur origine, à l’archéologie par leur usage”. Al nome di pietra incatenata potrebbero fare riscontro quello di pierre soupése di una loc. della Francia (Creuse) e quello di pierre clouée (Loiret). L’aggettivo contiene un’allusione alla loro stabilità ed inoscillabilità. (pagg. 18-19-20 Vol. I)


(1) Intorno ai mezzi di cristianizzazione dei megaliti, di cui si avvalse la Chiesa nel Medioevo, e specialmente all’uso di piantarvi la croce, per mettere fine alle pratiche superstiziose, ved. REINACH, 402.




Terminologia funeraria delle pietre


L’idea dei tumuli neolitici e dei luoghi di sepoltura nella toponomastica e nell’osservanza di alcuni riti


A Pagliara dei Marsi, tenim. di Castellafiume, in località detta Carpini, è morto violentemente un uomo. Tutti quelli che passano per quel luogo, se non rivolgono una prece al morto, sentono arrivarsi addosso una scarica di pietre. E’ il morto che reclama la sua naturale sepoltura sotto quelle pietre, l’adempimento d’un rito non ancora compiuto. Vicino alla stessa borgata di Pagliata, sotto la torre di Girifalco, vi è una fossa detta Currìo di Giannandrea, ov’esiste una grotta che ha un eco portentosa. Il popolo dice che  attorno a quella fossa va girando l’anima d’un certo Giannandrea, il quale per ricordarsi ai passanti, lascia cadere dei sassolini sulle loro spalle.


Nel tenimento di Petrella del Liri (Tagliacozzo), verso le montagne Faviglione o Padiglione è costume, dove cadde fulminato un individuo, di accatastarvi mucchi di pietre, ed ogni passante deve gettarne una. Ciò si pratica per farlo uscire dal Purgatorio; e sul cumulo si applica alcune volte una croce di legno.  (pag. 63 Vol. I)




La pietra fonte di leggende sui tesori


I monti, gli antri e le caverne sedi del tesoro – L’idea del tesoro nella toponomastica dell’Abruzzo – Le leggende sui tesori e le località intitolate dal diavolo.


Quella che in Abruzzo si potrebbe chiamare la teoria volgare dei tesori, si riassume così: “Quando si seppellisce un tesoro, vi si ammazza sopra una persona, e l’anima dell’ucciso vagola lì attorno sino a che, sotto certe condizioni imposte dal depositante, il tesoro non sia preso”. Perciò i tesori sono custoditi sempre dal diavolo o da spiriti maligni e fantasmi dall’aspetto orrido e spaventevole. Sulla montagna così detta Pianezze, di fronte al monte Girifalco, presso Castellafiume, nella Marsica, si trova la Grotta dello scapigliato. Dicono che vi è nascosto un gran tesoro, ma nessuno può impadronirsene, perché vi è posto a guardia un fantasma nero, con i capelli lunghi ed arruffati, detto perciò lo “Scapigliato”. (pag. 46 Vol I)




A Pagliara de’ Marsi, presso Castellafiume (Avezzano) e in altri Comuni della Marsica si crede che quando qualcuno ha trovato un tesoro di monete e non è degno d’appropriarselo, il denaro miracolosamente è trasformato in carbone (2)  (pag. 289)


(2) Per comunicazione del Cav. Fr. Di Marzio di Pagliara dei Marsi. 




A Corcumello (fraz. di Capistrello)  si crede fermamente che i carboni che si scavano sotto terra il 10 agosto, sieno quelli che servirono ad arrostire S.Lorenzo (3) (pag. 284 Vol I)


(3) Notizia favoritami dal sig. Fabiano Blasetti di Petrella del Liri.




La Guerra Sociale nella tradizione e nella toponomastica


Passando al territorio marsicano, non è legittimo il sospetto che l’attuale denominazione del paese di Tagliacozzo risulti dal conglomerato Italia equitia?

L’ibrida raffigurazione dello stemma di quel Comune, concepita nel guerriero che sta nell’atto di “tagliare “ la clamide o mantello (cotium), è da relegarsi tra le favole e i delirii del tramontato eruditismo classico. Tagliacozzo era al confine che divideva i Marsi dagli Equi o Equicoli, e forse il nome che si dà al protettore di quei luoghi, San Equizio, è di origine epicorica, come quello di San Pelino derivato dalla regione peligna. Di San Equizio Abate esistono memorie a Tagliacozzo. Il Febonio afferma che gli antichi abitatori del monastero dei SS. Cosma e Damiano, presso Tagliacozzo, avendo un tempo professata devozione a San Equizio Abate, denominarono quel sito Talia – Equitium. Il Volaterrano scrisse Taliaquitium, e Taliequitium più tardi Angelo della Noce nelle sue chiose al Cardinale Ostiense, per rapporto appunto all’origine di Tagliacozzo dagli Equi. Talia o Taglia, da integrarsi col prefisso I, corrisponde ad Italia. Torre di Talia, Torre d’Italia o d’Itaglia è il nome d’una borgata fra Alzano e Colle maggiore nel Cicolano, e forse sta a rappresentare la regione degl’Itali o dei Vitali secondo le tradizioni invalse in quei luoghi durante la rivolta contro Roma. Il nome di Tagliacozzo corrisponderebbe dunque, in forza di quella tradizione, ad Italia Equitia. (pag. 194-195 Vol. I)




La virtù miracolosa e curativa delle pietre


L’Incubazione


In certi paesi della Marsica, come Petrella del Liri, per guarire il male dei lombi, basta semplicemente strofinarli sulla pancia d’una donna incinta (4). (Pag. 116 Vol I)


(4) Notizie comunicatemi dal Sig. Fabiano Blasetti di Petrella del Liri.




Diavoli, fate, Sibille, ecc.


I personaggi storici.


15.) Grotta Cenci, nelle vicinanze di Petrella sul Liri, nella Marsica. Il nome è forse collegato al ricordo della celebre Beatrice. Secondo alcuni, il teatro della tragedia dei Cenci sarebbe stato Petrella Salto, paese del Cicolano (Aquila). Nella sentenza di condanna di Beatrice e de’ suoi complici si accenna, infatti, ad una “Rocca di Castel Petrella” del Cicolano. Altri storici, nel designare il luogo della tragedia, incorsero nell’errore di descrivere quel luogo come prossimo ad una “Rocca della Petrella”  degli Abruzzi, sul confine dell’antico Stato Pontificio, e distinto col nome di Cappadocia (1) (pagg. 97-98 Vol. I)


(1) BERTOLOTTI A. Francesco Cenci e la sua famiglia. Firenze 1879. – ADEMOLLO, Beatrice Cenci. Stor. Romana del sec. XVI – MANZI L. Il teatro della tragedia dei Cenci nella valle abruzzese del Salto. Aquila, Tip. Aternina, 1891, pag. 5 e seg.




Credenze e superstizioni popolari collegate all’esistenza di riti funebri primitivi


A Pagliara, Castellafiume, e in altri Comuni della Marsica vi è l’abitudine di lasciare aperto l’uscio di casa, mentre il cadavere è esposto, perché le anime sante entrino per accogliere l’anima del trapassato e si uniscano a questa. Usa anche di mettere le calzette bianche ai morti, affinché Caronte li sbarchi alla buona e non alla cattiva riva (1). In quasi tutti i paesi dell’Abruzzo è generale poi l’usanza d’aprire le finestre subito dopo il decesso, perché l’anima se ne possa andare indisturbata dalla casa. (pagg. 72-73 Vol. I)


(1) Notiz. Comunicatemi dal Cav. Fr. Di Marzio, dimorante nei luoghi.




Denominazioni relative agli antichi culti fallici


Come affermai in altro lavoro intorno alle sopravvivenze degli antichi riti e culti fallici nell’Abruzzo, permangono in questa regione, negli usi e costumi popolari e nelle denominazioni locali le traccie di quei culti, i quali pervennero a noi, dal paganesimo declinante, attraverso le popolazioni rurali dell’alto Medioevo.

L’osceno attributo del “fallo”, simbolo religioso dei Pelasgi, torna a comparire nella toponomastica locale, come attestano le seguenti denominazioni di contrade e paesi: 


2.) Monte Fallo, uno dei monti ad ostro della Valle di Nerfa, verso Valleroveto.


6.) Fallarano, contrada fra i tenimenti di Petrella del Liri e Verecchia, due fraz. di Cappadocia, vicino al ponte Ovido. (pagg. 33-34 Vol I)




L’elemento carolingio nella toponomastica abruzzese


3.) Peschio d’Orlando chiamasi una grotta situata sotto il monte Arunzo, nelle vicinanze di Petrella Liri, nella Marsica. Un poco più sotto a quella grotta, in direzione di Pagliara, nel locale S. Pietro e proprio nei pressi del fontanile detto “Fonte della Nina”, si scorge un macigno con una enorme fenditura. I naturali dicono che Orlando capitano, scommettendo in bravura coi suoi soldati, vibrò un colpo di durlindana su quel macigno e lo tagliò (1). (Pag. 295 Vol II)


(1) Per comunicazione del compianto prof. Fabiano Blasetti di Petrella sul Liri.

Vincenzo Sebastiani, pioniere dell'uso degli sci nella Marsica. Articolo di Alessandro Fiorillo


Quante volte gli escursionisti, che si sono cimentati nell’impegnativa scalata del Monte Velino, si sono fermati per ristorarsi, per pernottare, o anche soltanto per una breve pausa, nel Rifugio Sebastiani? Tante. Ma chi è il personaggio al quale il rifugio è stato intitolato diversi decenni fa?
Ecco un breve excursus sulla breve ma intensa e appassionante storia della vita di Vincenzo Sebastiani.

LE PRIME IMPRESE ALPINISTICHE

Vincenzo era nato a Roma il 26 ottobre 1885 da Ettore e Gaetana Manari. Fin da bambino si appassionò a tutti gli esercizi sportivi, preferendoli a qualsiasi altro passatempo, e mettendo fin dal principio in luce le sue doti atletiche. Negli anni dell’Università unì, alla brillantezza e agli ottimi risultati che conseguiva negli studi ingegneristici, un notevole impegno soprattutto sotto il profilo sportivo e sociale. Fondò “L’unione giovanile per la moralità”, allo “scopo di opporsi alla sfrenata licenza giovanile, combattendola con la rivista La Vita” (1), ma principalmente con l’esempio della sua instancabile attività nelle più disparate discipline sportive.  
Fu abilissimo nuotatore della “Società Romana di nuoto”, con la quale prese parte a diverse gare nel Tevere. Fu ciclista, socio della “Audax”, con la quale vinse una corsa di 400 km. Fu motociclista esperto ed utilizzava le ore libere per istruttivi o dilettevoli viaggi in moto, soprattutto verso l’Abruzzo, regione che amava particolarmente per gli ambienti ancora selvaggi, la natura incontaminata e, soprattutto, per le montagne.
Era infatti, la montagna, la sua più grande passione. “Egli soleva dire che sulle alte cime dei monti i pensieri divenivano più puri, più spirituali” (2). Consigliere del “Club Alpino Italiano”, fu anche primo delegato in Roma del “S.U.C.A.I.” (3), associazione di studenti universitari aggregati al “C.A.I.” . Con gli studenti del S.U.C.A.I. fu autore di mirabili scalate su alcune delle maggiori cime della catena alpina, e in un congresso di giovani alpinisti tridentini rischiò di finire, per la foga e la passione del suo discorso, nelle unghie della polizia austriaca. Sempre sulle Alpi, in Val d’Aosta, fu autore, insieme ad altri due giovani studenti, di una mirabile impresa, riuscendo a recuperare, passando per una via mai esplorata prima, gli oggetti e i reperti personali appartenuti ai giovani fratelli Segato, alpinisti e figli di un generale dell’esercito, precipitati, nel corso di un escursione, dalla cima del Monte Grivola (4).
Ma l’attività alpinistica di Vincenzo Sebastiani volgeva verso nuove mete. Nel 1906 aveva infatti ricevuto in dono gli allora quasi sconosciuti “Ski” (5).  Iniziò così, insieme ad un gruppo di amici universitari, ad esercitarsi in questa nuova disciplina sportiva, presso i campi di neve dell’Abruzzo. Divenuto ormai “skiatore” provetto, partecipò nel 1912 a Cappadocia (AQ) alle gare di “Ski” indette in occasione del “Congresso delle Società Abruzzesi”, e a Roccaraso (AQ) in quelle promosse dallo “Ski-Club”, dove vinse varie gare di velocità e di salto. Nel 1913 fondò il “Gruppo Romano Skiatori”, di cui fu eletto vice-presidente, e stabilì ad Ovindoli (AQ) la sede del gruppo.
Nel frattempo, già dal 1910, Sebastiani s’era laureato in Ingegneria Civile nella “Regia Scuola di Applicazione di Roma”. Da ingegnere, altrettanto attivo che come sportivo, condusse diversi lavori, tra i quali: la costruzione della conduttura d’acqua potabile di Amatrice, il risanamento igienico della città di Leonessa, la costruzione, sempre in questa città, della centrale elettrica che illuminò la località e i suoi dintorni. Diresse alcuni lavori anche a Roma.
Il 5 agosto del 1914 venne assunto, con la qualifica di sottocomandante, al Corpo dei Vigili del Fuoco di Roma (6), dove si distinse fin da subito per la professionalità e le doti fisiche e atletiche.

IL TERREMOTO NELLA MARSICA

Il 13 gennaio 1915 una fortissima scossa di terremoto distrusse Avezzano e molti paesi della Marsica. Il Sebastiani, quel giorno, si trovava a Leonessa, e intuì che da Roma sarebbero state inviate delle squadre per coordinare e partecipare ai soccorsi. Cercò fin da subito di rientrare in Roma, ma la situazione dei trasporti, causa lo sgomento generale, fu subito molto precaria e non riuscì a partire.
Il Sebastiani non si perdette d’animo, e anche in questo caso, per raggiungere la stazione ferroviaria più vicina, si gettò in un’impresa ardita. Indossò le sue scarpe da alpino, le armò degli “ski”, e giù di corsa “skiando” per le pendici del Terminillo, fino ad arrivare nei pressi della ferrovia dove riuscì a salire su un treno tra Cittaducale e Rieti, e raggiunse Roma.
Nel frattempo la prima squadra di Vigili romani, guidata dall’ufficiale Giacomo Olivieri, era già partita per Avezzano, ma a causa dell’enorme disastro già il 15 gennaio, alle ore 07.00, arrivava nella Marsica una seconda numerosa squadra di Vigili, tra i quali c’era Vincenzo Sebastiani, che si distinse fin da subito per l’eccezionale professionalità, ed ebbe il ruolo principale nel salvataggio delle signore Campana Annita, Aloisi Vincenza, Giovannina e Anna Colizza, Filomena Civitella, Giovannina De Mattei ed Elvira Antonini.
Il Comune di Roma, il Governo del Re e la Fondazione Carnegie conferirono al Sebastiani la medaglia d’argento per gli atti eroici e i salvataggi compiuti.

GLI ANNI DELLA GUERRA 1915-18

Nel frattempo la Grande Guerra entrò in una delle sue fasi più cruente, coinvolgendo anche il nostro paese. Vincenzo Sebastiani, che s’era congedato sottotenente di complemento del Genio, fu richiamato alle armi nell’aprile del 1915. Manifestò più volte la speranza d’essere assegnato ad un reparto di “Alpini Skiatori”, ma venne aggregato, come coadiutore del comandante Dragotti, ai Pompieri Militari della Seconda Armata. Il 14 agosto 1916 fu chiamato ad assumere il comando del Distaccamento dei Pompieri di Gorizia Italiana.
Gorizia veniva bombardata ogni giorno, e i pompieri erano costretti ad operare sempre in condizioni molto rischiose. Il tiro nemico si concentrava particolarmente sugli incendi, il fumo dei quali gli serviva da facile bersaglio. Vincenzo Sebastiani guidava le squadre dei pompieri egregiamente, sempre in prima linea, sotto il fuoco dell’artiglieria nemica.
Il 19 agosto del 1917, mentre era intento a coordinare le squadre di soccorso impegnate a spegnere un grave incendio sviluppatosi in un palazzo a seguito di un bombardamento, lo scoppio di una granata provocò delle gravissime ferite a Vincenzo Sebastiani. Il 20 agosto, dopo un giorno di sofferenze, il Sebastiani spirò.
La commozione, per la perdita di un ufficiale amato e rispettato da tutti, fu grande. Gli venne immediatamente conferita la medaglia d’argento al valore, decretata dal Comando dell’Armata, con la seguente motivazione: “Restava gravemente ferito mentre con abituale coraggio dirigeva le operazioni di estinzione di un incendio, sul quale insisteva ancora il tiro di artiglieria avversaria. Appena superata gravissima operazione, con esemplare serenità si dichiarava contento di aver compiuto il proprio dovere. Gorizia, 19 agosto 1917” (7) .
Nel 1922 la sua salma verrà trasportata solennemente dal Cimitero di Cormons a Roma. In occasione di quell’evento, il comandante dei Pompieri di Gorizia, Riccardo Del Neri, tenne un discorso nel quale, tra l’altro, disse: “E’ stato già comunicato che il Municipio di Gorizia provvederà a murare a sue spese nella Caserma Pompieri una lapide in memoria dell’eroico ufficiale, che altrettanto farà il Corpo dei Pompieri di Roma e che il Club Alpino intitolerà al Suo Nome il rifugio sul Velino”.
Il 22 ottobre 1922, alla presenza del sindaco di Ovindoli e dei delegati del “CAI”, ebbe luogo l’inaugurazione ufficiale del Rifugio “Vincenzo Sebastiani”, sito in località Colletto di Pezza (AQ) a 2.102 m slm, sul complesso del Monte Velino (8).

 
1- G. Olivieri, In Memoria, Vincenzo Sebastiani, estratto dal giornale “Coraggio e Previdenza” Monitore tecnico dei pompieri, numeri 21-22, Napoli 1917, p. 6.

2- G. Olivieri, op. cit.,  pag.  8.

3- Stazione Universitaria del Club Alpino Italiano.

4- Gli oggetti furono restituiti al generale Segato, che volle donare ad ognuno dei tre giovani una medaglia d’oro in segno tangibile del suo animo riconoscente.

5- Gli sci.

6- I vigili del fuoco della Capitale. Vedi anche: Federazione Tecnica Italiana dei Corpi di Pompieri - Bollettino Ufficiale, Milano 1917.

7- G. Olivieri, op. cit.,  pag.  30.

8- Esiste anche un sito internet dedicato al Rifugio “ Sebastiani”, la cui url è  www.rifugiovincenzosebastiani.it
 

NOTE: ringrazio il sig. Franco Cerroni per il prezioso contributo alle ricerche.

Documento della Curia Vescovile sul sisma del 1915

Documento della curia vescovile della diocesi dei Marsi del 15 agosto 2015, rinvenuto nel corso di alcune mie ricerche, con le informazioni ai parroci sulle azioni da intraprendere per avviare la ricostruzione dei luoghi di culto distrutti dal violento terremoto del 13 gennaio dello stesso anno.







Particolare: timbro originale del Partito Popolare Italiano - sezione di Cappadocia

sabato 25 luglio 2015

Una vecchia "ara" tra Petrella Liri e Pagliara?


Poco sotto la strada che collega Petrella Liri con Pagliara e Castellafiume, non molto distante dai resti dell'antico convento di San Pietro (che si trova nei pressi dell'omonima fonte), abbiamo (1) casualmente rinvenuto una piazzola un tempo utilizzata forse come aia.
Composta da un terrapieno sostenuto da un muro a secco (macera), probabilmente era usata dai contadini di Pagliara o di Petrella Liri. La "piazzola" dell'aia mostra una singolare figura geometrica (come visibile nelle foto), ossia due cerchi (l'uno nell'altro) e diversi raggi che passano per il centro.

Il perché di questa figura ce lo spiega il nostro amico Gerardo Rosci:
"La struttura non è altro che una vecchia aia per la trebbiatura con cavalli (quadrupedi in genere). Le aie erano ben pavimentate con selciati per poter raccogliere il grano fuoriuscito dalle spighe alla fine del lavoro.
Il selciato, a quei tempi, si faceva a regola d'arte, per durare nel tempo ed essere funzionale. I cerchi ed i raggi sono delle cordonate  con pietre più grandi, per  contenere  il selciato.
Certamente quest'aia sarà stata utilizzata fino alla prima metà del secolo scorso dai contadini di Pagliara; c'è da considerare che tutta quell'area, che ora è coperta da boscaglia, io la ricordo coltivata: anche alcuni contadini di Petrella vi avevano dei terreni."

Per il momento, in mancanza di altri indizi od informazioni più precise, resta in piedi anche l'ipotesi che si possa trattare della pavimentazione di una qualche struttura in uso al convento di San Pietro.

(1) Loreto, Mario, Angelo, Valter, Stefano e Alessandro.




Resti dell'antico lazzaretto
 
Il muro a secco (macera) che contiene il terrapieno dell'aia

Loreto sposta il leggero strato di terra che ricopre la "piazzola" sopra il terrapieno. Viene man mano alla luce un "disegno" geometrico, realizzato con pietre.

venerdì 24 luglio 2015

I pastori a Cappadocia, di Mario Cosciotti



DALLA CAMPAGNA ROMANA A CAPPADOCIA

I greggi di ovini, composti da circa 1500 capi, arrivavano sui nostri monti ricoperti da verdi pascoli verso i primi giorni di giugno, quando le campagne del Lazio bruciavano per la siccità; ad ogni padrone, il Comune di Cappadocia (AQ) assegnava un lotto su cui pascolare: chi andava a Morbano, chi a Vallevona, chi a Campolungo, chi alla Dogana; quest’ultimo era quello assegnato a mio padre responsabile di un gregge di circa 1500 ovini che proveniva dalla Tenuta Acqua Acetosa in via Laurentina km 9 a Roma. Anche gli altri provenivano quasi tutti dalle campagne laziali, ed ogni estate tutti questi animali si mettevano in movimento. Agli inizi del Novecento, il tragitto veniva fatto a piedi e durava circa tre giorni; i pastori con i loro greggi, attraversando valli, tratturi e montagne, dopo un viaggio massacrante sia per gli animali che per gli uomini, raggiungevano la pace delle nostre bellissime montagne.
Negli anni che seguirono, i trasferimenti venivano fatti metà con il treno fino alla stazione di Oricola - Pereto (Carsoli), metà a piedi, risalendo le montagne di Pereto che confinano con quelle di Cappadocia; Ai nostri giorni vengono fatti con autotreni, adattati al trasporto degli ovini, viaggi molto più comodi, se si eccettua una certa fatica per far entrare le pecore nelle gabbie di ferro, montate sui camion. Quando si avvicinava la data della partenza, qualche giorno prima, alcuni addetti portavano le masserizie sul lotto loro assegnato, e dopo aver scelto il luogo dove fare lo stazzo, si affannavano a far subito le mandre (1), in modo che appena i greggi arrivavano, potessero trovare pronti i propri recinti per la notte: dopo le mandre, altro recinto da fare subito era j’avato (2), recinto fatto come gli altri con le reti, però a forma d’imbuto, con tanti posti quanti erano i pastori addetti alla mungitura; Un altro compito di questi addetti era anche quello di preparare i capanni dove far dormire i pastori, uno per ognuno; venivano fatti con aste di faggio fresco: si piantavano per terra una vicina all’altra, poi si piegavano a forma d’arco e si legavano fra loro, quindi altre aste si incrociavano in senso orizzontale, si legavano anch’esse, e lo scheletro del capanno era bello e fatto. Si procedeva poi a fare la base a quindici cm da terra, sempre con paletti di legno, due della lunghezza del capanno più grandi messi in senso orizzontale, gli altri poggiati sopra di traverso, posti tutti alle stessa distanza e legati, cosi che anche la rete era pronta; si pensi alle toghe di oggi giorno… un certo quantitativo di foglie di faggio verdi diventavano il materasso, una piccola porticina fatta nello stesso modo a forma d’arco veniva posta alla fine del capanno, una buona copertura con un telo impermeabile e il letto era pronto e profumava di foglie verdi di faggio!! Dentro un capanno come questo, penso di aver fatto i più bei sonni della vita mia! Anche per le galline, in tutto una ventina, gallo compreso, ne veniva costruito uno. Voi non immaginate che divoratrici di grilli sono le galline e quante migliaia e migliaia di grilli vivono sulle nostre montagne; oltre le pecore e tre cani pastori abruzzesi, la masseria era costituita da un mulo usato come cavalcatura e due asini usati per il trasporto di formaggio, ricotta e legna. La capanna era più grande e di solito rimaneva intatta anche per l’anno successivo e bastava qualche riparazione per rimetterla in sesto.

IO, ULTIMO CASCIAREGLIO

Nella capanna c’erano due rapazzole (4) per qualsiasi evenienza, vi si mettevano le provviste, ci s’intratteneva vicino al fuoco la sera, vi si preparava la cena e la colazione e vi si faceva il formaggio e la ricotta, però solo in caso di pioggia. Un' altra cosa da costruire subito era il cosiddetto copellaro, non era altro che una specie di tettoia ricoperta sempre da foglie di faggio per fare ombra, sotto il quale si trovavano due aste parallele di faggio e sopra le quali poggiavano di solito quattro copelle (5) che contenevano circa 25 litri di acqua per ognuna, ed era compito de jo casciaréglio andare al fontanile tutti i giorni con gli asini, e riempirle d’acqua. Altro compito de jo casciarejo era trasportare tutti i giorni formaggio fresco e ricotta dallo stazzo a Cappadocia, per venderli poi subito ai villeggianti e agli abitanti del luogo; il viaggio durava circa un’ora e mezzo e spesso ci si incontrava con gli altri casciareji che provenivano da sentieri e pascoli diversi, e si percorreva insieme l’ultimo tratto di strada che portava fino al paese. Appena giunto al paese, jo casciaréglio scaricava il formaggio nella cantina, portava le bestie nella stalla e gli dava il fieno. Il suo compito però non finiva lì; faceva subito la spesa che i pastori gli avevano ordinato e poi fino all’ora di pranzo era libero. Dopo pranzo tirava fuori gli animali dalla stalla, caricava sopra gli asini la spesa che aveva fatto e si rimetteva in cammino verso lo stazzo da dove era venuto, insieme a qualche compagno al quale aveva dato appuntamento; questo viavai su e giù per la montagna era il suo compito e durava per tutta l’estate. Quante volte sulla strada del ritorno, lampi, tuoni e piogge torrenziali mi accompagnavano fino allo stazzo!! Dove, tutto fradicio, entravo nella capanna e accendevo subito il fuoco per asciugarmi i vestiti.
Se penso che oggi, ogni lotto ha il suo rifugio in cemento, fatto di due camere e un grande camino, che si può raggiungere anche con le autovetture, mi prende una certa rabbia, perché ripenso a tutti i viaggi fatti percorrendo quei viottoli mulattieri!!
Verso le dieci del mattino, prima non era possibile perché le fundicelle (6) erano sempre ricoperte di nebbia, i pastori abbassavano le reti e portavano al pascolo i greggi; si dirigevano, per abbeverarli, verso i due fontanili appartenenti al nostro lotto; uno, il più grande, Fonte San Nicola, la cui acqua sgorga gelida dalla roccia e penso che sia l’acqua più buona di tutte le nostre montagne; il secondo, la Fonte della Spina (7), più piccola ma più vicina, rimaneva sul lato opposto, solo che in estate quando pioveva poco, l’acqua che usciva era talmente poca che per riempire 4 copelle ci voleva quasi un’ ora.
Ogni dieci giorni le pecore, verso sera prima di rientrare, venivano fatte passare alle salere (8). Ricordo di una lepre che tutte le sere andava anche lei a leccare il sale alle salere.
La sera, quando i pastori ritornavano dal pascolo, mettevano le pecore nei recinti e poi si recavano a j’ avato per la mungitura; seduti sulle loro banchette (9) con il secchio per il latte ben serrato tra le ginocchia, aspettavano che le pecore, spinte da jo biscino (10) s’incanalassero nelle bocchette, per poi bloccarle, ponendo sul loro collo j’ancino (11) legato ad un paletto.
Finita la mungitura jo casciere (12) versava il latte che ogni pastore aveva nel proprio secchio in una grande caldaia facendolo passare attraverso la cola (13) per filtrarlo, liberandolo così da ogni sorta di sporcizia. Poi fatto scaldare il latte alla temperatura giusta, 35/38 °C, toglieva la caldaia dal fuoco, vi versava dentro il caglio naturale (14) dopo aver mescolato un po’, e quindi aspettava la cagliata 20/25 minuti circa; dopo rimetteva la caldaia sul fuoco e mescolando co jo rompituro (15)
rompeva la cagliata e la portava ad una temperatura di cottura di 40/42 °C, per circa 10/15 minuti, fino a quando il formaggio non assumeva la consistenza di chicchi di granturco; quindi tolta la caldaia dal fuoco, il formaggio veniva fatto depositare sul fondo della caldaia e pressato con le mani, poi segato con un filo e depositato in apposite forme (16), dove veniva pigiato con le mani per essere spurgato dal siero.
Il siero di latte, avanzato dalla lavorazione del formaggio, veniva invece utilizzato per fare la ricotta. Messo di nuovo sul fuoco e mescolandolo in continuazione, veniva portato ad una temperatura di circa 80/85 °C. Dopo circa 45 minuti, la ricotta saliva in superficie e raccolta con la schiumarola, veniva messa in apposite fuscelle di giunco e fatta scolare; Spesso i pastori, quando non avevano voglia di cucinare, per far colazione prendevano una scodella e vi versavano dentro siero e ricotta calda e dopo avervi messo del pane, si preparavano una ricca colazione detta mpanata. Al termine di tutta la lavorazione casearia, i pastori ormai liberi da ogni incombenza, potevano dedicarsi ognuno alle proprie attività personali.
Al mattino presto, dopo la mungitura, si ripetevano tutte le attività della sera; ed io, casciaréglio, dopo aver sistemato nelle ceste, formette e ricotte, montavo sulla mia mula e mi mettevo in viaggio alla volta del paese, con gli asini che camminavano davanti a me con il loro prezioso carico…...
Ai primi di agosto tutte le attività casearie venivano a cessare per permettere alle pecore, già al terzo mese di gravidanza, di potersi preparare per il nuovo ciclo riproduttivo che si sarebbe compiuto appena tornate nelle campagne del Lazio, da dove erano venute…
Settembre è arrivato, è tempo di migrare. La transumanza ha inizio…oggi dopo tanto tempo, torno con la mente a quei tempi, alle lunghe giornate al seguito delle greggi. Lo faccio recitando a mente la lirica di D’Annunzio…



I pastori

Settembre andiamo. E’ tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
Lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti

Han bevuto profondamente ai fonti
Alpestri, che sapor d’acqua natìa
Rimanga ne’ cuori esuli a conforto.
Che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
Conosce il tremolar della marina!

Ora lungh’esso il litoral cammina
La greggia. Senza mutamento è l’aria
Il sole imbiondì sì la viva lana
Che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquio, calpestìo, dolci romori.
Ah perché non son io co’ miei pastori?


(1): recinti, di solito a forma quadrata, con reti di canapa e bastoni di legno ben piantati

(2): il mungitoio

(3): così veniva chiamato il ragazzo addetto ai piccoli servizi dello stazzo

(4): posti letto

(5): piccole botticelle fatte di legno

(6): così era chiamata la zona dove era situato lo stazzo

(7): detta così perché l’acqua nasce sotto una pianta di uva spina

(8): non erano altro che grosse pietre lisce sopra le quali veniva versato il sale, perché l’ erba della montagna è insipida e quindi agli animali viene dato del sale come integratore

(9): di legno a forma di mezzaluna con tre piedi

(10): colui che toccava a j’avato, la mungitura

(11): legno ricurvo a forma di V

(12): il casaro, colui che fa il formaggi

(13): tela di canapa

(14): estratto dallo stomaco dell’agnello ancora lattante, veniva messo ad essiccare all’aria, poi triturato e reso granuloso, veniva conservato con olio e sale in un barattolo

(15): bastone di legno di spino con varie ramificazioni sulla punta

(16): cassi di legno di faggio



NOTE: 

Il contenuto di questo articolo si basa sulla mia esperienza diretta di casciaréglio, mestiere che ho svolto unitamente a quello di pastore insieme a mio padre, negli anni Sessanta.
Desidero ringraziare il Dott. Alessandro Fiorillo, ricercatore storico e webmaster del sito internet del paese di Cappadocia, con il quale collaboro allo sviluppo e la crescita del suddetto spazio web e alla raccolta delle tradizioni storiche locali.