giovedì 30 luglio 2015

L'officina saltata in aria, di Gerardo Rosci

Quello nella foto è il canale che trasportava parte dell'acqua del Liri dalla sorgente all' "officina" che generava la corrente elettrica per tutto il territorio comunale e che venne fatta saltare in aria dai tedeschi durante la ritirata.
Ricordo che quel giorno un paio di aerei gettarono un paio di bombe intorno a Cappadocia.
Noi a Petrella fuggimmo da casa, tutti terrorizzati, correndo fuori dal paese; con quelli della mia zona del paese stavamo fuggendo verso il monte Arunzo. Proprio mentre ci stavamo inerpicando sul sentiero pietroso, si udì un'enorme deflagrazione proveniente dal fiume. Un'altissima colonna di fumo e fiamme si era alzata verso il cielo. La gente urlava di paura raccomandandosi alla Madonna od ai santi. Il fumo si disperse e l' officina apparve nella sua spettrale desolazione; era saltala in aria ed i nostri paesi restarono senza corrente e, di conseguenza, senz'acqua.
In merito a quegli anni, questo è quanto emerge dai miei ricordi di bambino di allora: Petrella fu occupata dai tedeschi che fecero il loro quartier generale nella palazzina dei Basile, un’ abitazione molto grande, con accesso diretto alla strada che attraversa la valle di Nerfa e quindi adatta allo scopo. Questi avevano occupato anche un altro villino nelle vicinanze, una palazzina in piazza Vittorio Veneto, l’edificio scolastico ed alcune case non abitate nel centro del paese. Presso Piazza Centrale, alloggiarono anche dei soldati polacchi. Questi ultimi, contrariamente ai tedeschi, erano abbastanza socievoli con i paesani; noi bambini spesso andavamo sotto le finestre, chiamandoli a gran voce, per farci gettare giù qualcuna di quelle loro orribili gallette dal sapore stantio e rancido. Ma a quel tempo si mangiava di tutto, e una galletta, anche se di sapore sgradevole, dava a noi bambini, l’illusione di assaporare un dolce biscotto.
Sotto le rocce del monte Arunzo in località Santo Pietro era sistemato il deposito delle munizioni e dei carburanti, che servivano per il rifornimento delle guarnigioni che erano d’istanza a Montecassino. Quando i tedeschi si ritirarono, rimasero sul posto un enorme numero di fusti di benzina vuoti. Erano di lamiera zincata e spessa, rinforzati da due robusti cerchi in ferro. Tutti gli abitanti di Petrella si affrettarono ad accaparrarseli; erano utilissimi per numerosissimi usi. Anche da casa mia accorremmo: io, mio padre e le mie due sorelle maggiori. In quel terreno sotto strada, proprio davanti la fonte di Santo Pietro, di fusti ce ne erano tantissimi. Ricordo che alcuni erano trapassati da proiettili. Certamente erano la conseguenza dell’avvenimento di una di quelle notti che precedettero la ritirata. Io non la vissi personalmente, perché dormivo il sonno degli innocenti; la vissero, per così dire, le mie sorelle e mia madre. Raccontavano che la valle era completamente illuminata dai bengala; gli aerei alleati volavano a bassa quota e il rumore delle armi da fuoco si mescolava al rombo degli aerei. Le mie sorelle urlavano terrorizzate; erano convinte che fosse giunta la fine del mondo, così come l’avevano appresa dagli insegnamenti religiosi di allora: “…fiamme di fuoco scenderanno dal cielo…la valle di Giosafat ecc…

- Mamma aiuto, mamma corri, vieni, vieni a morire qui insieme a noi!

Mio padre scelse e mise da parte cinque o sei di quei fusti; ognuno di noi ne prese uno facendolo rotolare a spinta verso il paese. Anch’io mi portai avanti il mio, nonostante avessi solo poco più di sei anni, ma a quell’età, a quel tempo, si era quasi adulti. Proseguivamo come in processione. Qualcuno, giovane e robusto, se ne spingeva avanti due. Chi aveva il carretto se ne caricava direttamente cinque o sei. Sembravamo tante formiche che spingevano avanti i lori chicchi di grano. E proprio per conservare il grano, molti di quei fusti vennero poi utilizzati. Altri come cassoni dell’acqua o come tinozze per il bucato. Quell’anno, Alfredo il fabbro ferraio, si ritrovò da svolgere un sacco di lavoro: togliere i cerchi dai fusti, aprire gli stessi fusti con martello e scalpello per farne uno grande o due più piccoli, e munirli, eventualmente, di manici ecc.. Di recipienti ce ne era gran bisogno; non era stata ancora scoperta la plastica, e quelli erano veramente utili e resistenti.
I cerchi, robusti e pesanti, venivano riciclati per realizzare qualche inferriata o come travetti in qualche opera muraria. Noi ragazzi ci giocavamo, facendoli rotolare per le strade; altri giocattoli non ne avevamo.



Gerardo Rosci




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