lunedì 21 dicembre 2015

Il nostro dono per il Bambin Gesù, di Gerardo Rosci

Non oro, non incenso, non mirra, ma legna, tanta legna per il fuoco di Natale davanti alla chiesa; questo era il dono che noi ragazzi offrivamo, con orgoglio, al Bambinello.
“Léna, léna, léna pe jo foch'e Natale a sera!...”, era il richiamo che lanciavamo noi ragazzini di allora, a Pertrella Liri; ci eravamo investiti dell’incarico di raccogliere la legna per il fuoco di Natale. Un fuoco più grande possibile che potesse raggiungere con il suo calore, il Bambinello sull'altare là, in fondo alla chiesa. Andavamo in giro per il paese richiamando l’attenzione delle donne e farci dare un “ciocco” "per riscaldare il Bambinello".A bassa voce, poi, ripetevamo: “legna, legna noi vogliamo, se non la date la rubiamo!...” Si, la voglia di realizzare un falò molto grande, ci faceva sentire, molto spesso, autorizzati dallo stesso Bambinello, a rubare pezzi di legna da quelle cataste che si trovavano, numerose, in strada vicino alle abitazioni. Si, le cataste, che erano la scorta per tutto l’anno, erano alla portata di tutti, ma nessuno del paese avrebbe osato toccarle; sarebbe stata una vergogna. Ma questo non valeva per noi: noi eravamo scusati dal fine benefico... Ma i proprietari, qualche volta, se si ne accorgevano e venivano a riprendersi il maltolto, molto spesso con gli interessi, davanti alla chiesa.
Tutti noi ragazzi dovevamo, o avremmo dovuto, partecipare alla raccolta; se qualcuno svicolava, cercando di non farsi vedere, noi lo minacciavamo avvisandolo di non presentarsi assolutamente a riscaldarsi davanti al fuoco, durante la festa. Anzi, quando lo si vedeva, veniva fatto bersaglio dei nostri insulti e delle nostre sassate; e a lanciare i sassi, vi assicuro, eravamo tutti dei veri campioni; non miravamo mai al bersaglio grosso, ma lanciavamo il sasso raso terra per colpire, eventualmente, le gambe. Eravamo i primi “gambizzatori”. Oggi certe cose non si concepiscono, ma noi eravamo ruspanti ed un po’ selvaggi, ma certamente non violenti come certi personaggi virtuali delle play station. Noi questa roba non l’avevamo, e se c’era da litigare lo si faceva con una lotta a sbattere a terra, senza pugni o contusioni, ma dopo si tornava amici come prima. Certamente qualche sassata a volte arrivava in testa…e i segni li si poteva notare quando si veniva “tosati”; infatti, allora, per noi ragazzini c’era solo un tipo di taglio di capelli: cortissimi o, come spesso capitava, a zero; per questo servizio, non essendoci un barbiere in paese, alcuni si avvalevano delle capacità di qualche familiare, quasi sempre il padre; in tal caso, l’opera non era quasi mai perfetta, anzi, il più delle volte uscivano fuori delle teste piene di sforbiciate a scale che suscitavano ilarità e commenti:
“Co tutte ‘sse scale ‘n capo po’ azzeccà fino ‘n Paradiso!;
e poi bisognava sopportare anche le canzonature di qualcuno che diceva: “Coccia pelata senza capigli, tutta la notte ci cantano i grilli e ci fao la serenata, bona sera coccia pelata!”; altri si andava a Cappadocia, da Vincenzino, che era, allo stesso tempo, barbiere, calzolaio, edicolante, fonte di qualsiasi informazione e pettegolezzo e non so che altro. Chi avrebbe mai potuto immaginare un taglio a caschetto, o lungo come le femmine! E poi come ci saremmo potuti difendere dai pidocchi? Le nostre madri ci ispezionavano spesso e ci facevano pettinare col pettine “fitto” previa una passatina di olio d’oliva, misto a petrolio, sulla cute.
I nostri pantaloni non erano “firmati”, ma fermati da bretelle (straccàli) o da qualche vecchia cinta; qualche ragazzo li portava corti anche d’inverno, nonostante il freddo.
Quando i ciocchi erano troppo pesanti, li assicuravamo ad una corda, od altro, a cui fissavamo una serie di bastoni equidistanti l’uno dall’altro, che fungevano da maniglie per altrettante coppie di ragazzi, per trascinarli via come tanti cani da slitta. In questo modo riuscivamo a trasportare, fin davanti alla chiesa, con il freddo e con il fango, anche dei tronchi abbastanza grandi, abbandonati fuori paese.
Poi, quando arrivava il momento, la sera della vigilia di Natale, con l’aiuto di qualche adulto se ne faceva un grande mucchio, davanti la chiesa, e lo si accendeva. Che riverente eccitazione, che soddisfazione nel riscaldarsi a quel fuoco! Finalmente ci sentivamo coinvolti ed importanti al pari degli adulti; noi eravamo in prima fila; loro erano un po’ più arretrati, con le braccia al disopra delle nostre spalle, tese verso le fiamme a mani spalancate; poi, prima di cena, si assisteva alla funzione religiosa serale. Il “cenone”, anche se abbastanza frugale, era sempre un grande avvenimento; chiaramente era a base di magro: spaghetti aglio e olio oppure col sugo di tonno; per secondo c’era quasi sempre l’anguilla marinata con contorno. Poi c’era la frutta: un’arancia o un mandarino e qualche “ficora” (fico secco). In fine, è il caso di dire “dulcis in fundo”, cera un pezzo di “nucciata”, cioè, una specie di torrone fatto in casa, a base di farina, frutta secca, zucchero, miele, e non so che altro; ricordo solo che era tanto buono. Però, era ancora più buono, perché era una novità che non tutti si potevano permettere, un pezzetto di torrone bianco, quello che si comprava al negozio. C’era, poi, la letterina di Natale, che l’insegnante ci aveva fatto scrivere, sotto dettatura, con tante belle parole che non avremmo mai avuto il coraggio di dire ai nostri genitori direttamente; non ci saremmo mai rivolti a loro in italiano, perché i sentimenti si esprimevano nella lingua materna, in dialetto; c’erano anche le promesse di essere più buoni; semplici ed innocenti bugie, scritte al fine di rimediare un po’ di soldi… che ci permettevano di poter giuocare a tombola con gli amici, in attesa della nascita del Bambinello. Non in tutte le famiglie si giuocava quella sera, ma i giovani ed i ragazzi, normalmente, si riunivano in casa di altri amici, per giocare a tombola, a mazzetto, a sette e mezzo, a mercante in fiera od altro. All’approssimarsi della mezzanotte si stava con l’orecchio teso per sapere quante volte avessero suonato le campane per la messa di mezzanotte. Alla messa di mezzanotte non si poteva assolutamente mancare; le assenze dalla messa erano sempre notate dai parenti. L’atmosfera era veramente magica; a quell’ora, in altre notti, normalmente si dormiva; non era ancora stato importato quel buffo personaggio, vecchio e grasso, vestito di rosso. Ma chi se lo immaginava uno strano personaggio con la barba bianca. Non era ancora stato raffigurato nei nostri libri di lettura. E poi, che senso avrebbero avuto delle renne scandinave, in un paesino come il nostro? Le nostre capre e lenostre mucche le avrebbero rimandate via a forza di cornate…. Ma il consumismo globale ce lo ha, poi, quasi imposto, relegando in un angolo il caro, poetico e semplice presepe. Quel presepe che, quando ero bambino, ad ogni Natale realizzavo in un angolo della casa, con quel bel muschio rigonfio, che abbondava nei nostri boschi. Un presepe semplice e povero; i personaggi non erano tridimensionali; non avendo la disponibilità, né un negozio in paese dove, eventualmente acquistarli, me li costruivo ritagliandoli dalle cartoline d’auguri natalizi, e li sistemavo lì, in quelle stradine fatte con la rena, tra collinette spruzzate di farina.
Avevamo il Bambinello, noi; e poi c’era la Befana che ci stava aspettando tra qualche giorno, per riempire, con qualche caramella, un torroncino, mandarini e fichi secchi, le nostra calze di cotone nero, con la soletta bianca, fatte con i ferri dalle nostre donne. Aspettavamo con ansia la nostra cara e dolce vecchietta, che non era brutta come la rappresentano ora, ma dolce e premurosa, come le nostre nonne. Tinta di fuliggine, volava silenziosa di tetto in tetto, con il suo sacco pieno di cose buone, infilandosi magicamente nelle calde canne dei numerosi camini.
Le campane che chiamavano i fedeli alla messa, suonavano tre volte, ad un intervallo di una decina di minuti; l’ultima chiamata terminava con il suono prolungato della campana piccola; si diceva che “accennava”, cioè, che era ora di entrare in chiesa.
Ci si avviava verso la chiesa, alla fioca luce dell’illuminazione di allora. Nelle strade semibuie, sotto un cielo superstellato, ci si incontrava, con altri amici paesani; ci si riconosceva a distanza ravvicinata, all’ultimo momento, e ci si salutava chiamandosi per nome.
- Aoh, commare Marì! Bon Natale,!
- Compare Francì, bon Natale; non te stevo a reconosce co ‘sto scuro. Ha accennato?
- Ancora no, ha sonato du vote, ma sta pe accennà. Ecco tocca camminà piano piano ché co ‘sta cria de nève s’ha da sta atténti, se no ci nne iamo pe tera.
- St’anno de nève n’ha fatta poca, però fa tanto friddo! E po’ stanotte, co ‘sto cielo stellato le strade s’hao gelate.
- Eh, sci, doppo sta poca neve s’è misso a tramontana e s’è gelato tutto e jo vénto arza ‘na beferina che te sbatte addósso e te spacca la faccia.
Le donne anziane, col fazzolettone in testa, procedevano piano, con cautela; sotto i pesanti scialli tenevano tra le mani lo scaldino di terracotta, con dentro la brace, coperta di cenere perché potesse durare più a lungo.
Durante il percorso qualche giovanotto si avvicinava a loro, con una sigaretta spenta in mano salutando:
- Ciao zia Nicoli’, me faristi appiccià daglio scallino? I prosperi ji tengo, ma me ss’ao mpussi, e non s’appicciano. Grazie Zia Nicoli’, Bon Natale.
- Grazie beglio mi, Bon Natale pure a ti. Madonna, comme te si fatto rosso; ma già fumi? Eh, jo fume fa male alla saccoccia!
Con un sorriso, acconsentivano di buon grado che avvicinassero il loro viso al loro scaldino. Consigliavano di non fumare, non tanto per la salute, perché allora non si conoscevano molto i danni procurati dal fumo, ma di non bruciare i soldi in quel modo.
Nella semi oscurità, ci si ritrovava di nuovo, tutti davanti alla chiesa, a strofinare le mani verso il fuoco; i volti illuminati dalla fiamma, con gli occhi ed il naso strizzati per il calore e per il fumo, si sorridevano e si scambiavano frasi d’auguri. Ci si riscaldava anche dietro, volgendo le spalle al falò. Le donne, avvolte nei loro scialle, entravano direttamente in chiesa mentre molti uomini indugiavano, aspettando che il sacrestano suonasse a distesa quella campanella accanto alla porta della sacrestia. All’ingresso della chiesa c’era sempre una scopa, come anche all’ingresso delle abitazioni, con la quale ci si puliva le scarpe dalla neve, per no portarsela dentro. Quella grande chiesa nuova era terribilmente gelida, con quelle mattonelle in graniglia di cemento e con quella volta così alta; mia madre se ne lamentava spesso; a quel tempo non c’era nessun sistema di riscaldamento.
La messa aveva carattere solenne, cioè, era cantata. Angeluccio il sacrestano, dopo aver acceso tutte le luci, anche quelle dei tre grandi lampadari che pendevano dall’alto dell’arco dell’abside, suonava a distesa ed a lungo la campanella, con aria seria e quasi autoritaria, come si addiceva alla circostanza. Quindi, come organista e cantore, andava a sedersi all’armonium, dietro l’altare, mentre Don Serafino, l’anziano sacerdote officiante, saliva sull’altare, accompagnato da uno o due ragazzi chierichetti. Normalmente, alla messa solenne della domenica, quella delle undici, lui da solo eseguiva la parte cantata; dopo essersi schiarita la gola con qualche sonoro colpo di tosse, iniziava il canto, accompagnato da una limitato giro di accordi di quell’armonium, al cui suono si univa il cigolio dei pedali. A Natale però, come anche durante le festività di riguardo, c’era sempre qualche altro cantore che si univa di rinforzo, a formare un duetto od un trio. La voce di testa e un po’ nasale di Angeluccio, mal si amalgamava con quella forte, gutturale ed un po’ sguaiata di Checchino il calzolaio, o con l’altra piatta e adenoidea di Franco, per cui ognuna di esse sforava, distinguendosi perfettamente dalle altre; però, la loro unione, con il riverbero dalla volta dell’abside, esaltava la solennità del Natale, e gratificava l’assemblea dei fedeli.
Iniziava con il Kyrie; poi il sacerdote intonava il Gloria, scoprendo quel Bambinello dal viso di porcellana, completamente avvolto, comprese le braccine, in fasce celesti, alla maniera di come venivano rivestiti i neonati di una volta,. Il coretto proseguiva, in una tonalità prestabilita, quasi sempre diversa da quella del sacerdote. La melodia consisteva in una serie di brevi e veloci recitativi su una stessa nota, che anticipavano lente frasi cantate. Dello stesso stile erano il Credo , il Sanctus e l’Agnus Dei. Ad un certo momento della messa, veniva cantata “La pastorella”, che era un modo locale di identificare il “Tu scendi dalle stelle “.
Terminata la messa, la gente si ammassava all’uscita per andarsi a ridare una scaldata davanti al fuoco. Le donne preferivano andare direttamente a casa. Se c’era abbastanza neve, le ragazze diventavano bersaglio delle palle di neve dei giovani, per cui, timorose, indugiavano all’interno della chiesa. Il bravo Angeluccio doveva intervenire, talvolta, con aria pseudo autoritaria, intimando ai ragazzi, di non infierire con le palle di neve, ma facendo l’occhietto come per dire: tirate, tirate!
Gli uomini preferivano rimanere un poco vicino al fuoco, a chiacchierare ed a scalarsi. Qualcuno si accendeva la pipa o il sigaro o la sigaretta con un pezzetto di legno acceso dal falò; i fiammiferi ce n’erano pochi; gli accendini erano una rarità, e poi, vuoi mettere il gusto di accendere direttamente dal fuoco? Era un’altra cosa. Qualche vecchio prendeva direttamente con la mano un piccolo carbone acceso e, facendolo saltellare nella mano callosa, per non scottarsi, lo faceva ricadere sul fornello della sua pipa di terracotta, che aveva caricata con il tabacco di un “mozzone” di sigaro toscano.
Per più di tre giorni, quel fuoco continuava a bruciare, e noi ragazzi lo accudivamo soddisfatti, sperando che il suo calore potesse raggiungere, miracolosamente, il Bambinello esposto sull’altare, al freddo di quella gelida chiesa.
Fino all’Epifania,il Bambinello restava esposto. In tale lasso di tempo, si facevano preghiere e devozioni: quelle più frequenti erano gli “strascini”, che consistevano nel percorrere, una o più volte, in ginocchio, tutta la lunghezza della fredda navata centrale della chiesa, recitando il Credo ed altre preghiere, fin sotto l’altare. I genitori ci incoraggiavano spesso a fare tali devozioni:
- Beglio de mamma, vatte a fa ‘n po’ de strascini a jo Bambineglio.
Ed io ci andavo e correvo sulle mie ginocchia, sorpassando qualche anziana devota che, col fazzolettone sulla testa, avanzava lentamente, tenendosi con una mano le lunghe “wunnelle”, bisbigliando con profonda devozione le sue preghiere in un latino approssimativo, storpiato ed a lei incomprensibile, sicura, comunque, che erano preghiere che il Bambinello avrebbe sentite e le avrebbe capite ugualmente.


Gerardo Rosci.

martedì 8 dicembre 2015

Il ceppo di Natale

Il bellissimo tema di un bambino di Cappadocia, che descrive l'atmosfera del Natale nel lontano 1931, quando nel corso della solenne festività rientravano in paese anche coloro che erano costretti a trascorrere lunghi periodi lontano dalla famiglia:

"Non ho provato più mai una grande gioia come la provai l’anno scorso. Erano già trascorsi tre anni che mio padre si era allontanato dalla sua famiglia per andare a lavorare in altri paesi affinché mantenesse onestamente i suoi figliuoli. Quindi avvicinandosi la grande, solennità del S. Natale, colse l’occasione di ritornare verso il sospirato tetto. Noi tutti di famiglia aspettavamo con ansia il desiato giorno in cui doveva ritornare il nostro genitore. Finalmente venne il giorno tanto bramato, e ritornò il nostro padre. Oh! come mi palpitò il cuore per l’allegria quando lo vidi! Lui piangeva per tenerezza e io ridevo per gioia – Quindi la nostra madre preparata nel giorno della vigilia di natale una grande cena, tutti quanti noi ci sedemmo a tavola, riccamente apparecchiata. Finito di mangiare e passati i dolci natalizi, ci sedemmo attorno al focolare che mandava un caldo eccessivo. Ma essendosi quasi consumato, mia madre uscì fuori per prendere un gran ceppo e fare il fuoco. Fattosi un gran fuoco, io e le mie sorelle ci mettemmo attorno a nostro padre affinché ci raccontasse qualche fatto o qualche novella. Allora vinto dalle nostre preghiere incominciò a raccontare delle avventure che erano avvenute proprio a lui la in quei paesi di barbari e rozzi e delle favolette piacevoli e ridicole. Oh! come era contento vedendo tutti i suoi figliuoli stretti intorno a sé! Oh! come sopportava a malapena il pianto! Ed esclamava! Ah! che gioia proverebbe se potesse vivere sempre nella mia casa insieme colla mia famiglia! Essendo già trascorso molto tempo in divertimento e in risi, lasciammo i giuochi e andammo a riposare". 

Cappadocia 26-1-1931 

Francesco Lilli. 









domenica 1 novembre 2015

I colori dell'autunno

L'autunno, nei nostri monti, è sempre affascinante. Per l'esplosione di colori che porta con sé.
































sabato 10 ottobre 2015

La bomba di muro pezzuto, di Gerardo Rosci

La guerra era finita da tre anni. Quell’anno, noi ragazzi, avevamo scelto, come luogo per la merenda di pasquetta, Cesa Paradiso, cioè, la zona del monte Arunzo che sovrasta la chiesetta di San Giovanni, e da dove si gode una vista spettacolare su tutta la valle. Per l’occasione io mi ero attrezzato per preparata la bevanda: una bibita  base di aranciata, fatta con la cartina. Per poterla fare in modo che  rimanesse frizzante, avrei dovuto avere una bottiglia con il tappo a chiusura ermetica, come quelli delle gassose; ma chi te lo dava?  Non avevo neppure quella col tappo a vite, che avrebbe fatto al caso. Mi dovevo accontentare di una semplice bottiglia da chiudere con il tappo di sughero. Era una gara dura; appena  versavo la polverina contenuta nella cartina dentro la bottiglia piena d’acqua, questa iniziava a frizzare così forte che  non riuscivo  ad inserire in tempo il  tappo  a dovere; e poi, il tappo di sughero non teneva, e quando mollavo la presa, quello saltava via lasciando uscire quel poco di gas che si era formato.  Quindi, mi dovevo accontentare di  quell’acqua colorata dal vago sapore di arancia; e poi non era neppure fresca, ché allora non avevamo mica il frigorifero. L’unico ambiente un po’ refrigerato era la nostra cantina, costruita a ridosso della roccia. Comunque, allora ci si accontentava di poco.
In un sacchetto di tela, uno di quelli utilizzati per vari usi, sistemai tutte le mie vettovaglie che, come al solito, consistevano soprattutto in dolci e bevande; chiaramente tutto fatto in casa e regolarmente benedetto, come esigeva la devozione di allora : un pezzo di  pizza sbattuta tipo pan di spagna, un pezzo di ciambellone, alcuni biscotti, una ciambella di quelle che prima di andare al forno vanno sbollentate, un paio di arance, un uovo sodo, un pezzetto di uovo di cioccolata e la bottiglia di aranciata. Non mancava nulla; mancava solo la nutella, ma non era stata ancora inventata.
Appuntamento a Pitori, la parte alta di Petrella Liri. Eravamo sette od otto ragazzi.  Ci avviammo per la  salita che, passando per la zona delle stalle del Gazarino, conduce alla chiesetta di San Giovanni, alle falde del monte. Dopo una lunga arrampicata  per il sentiero scosceso, arrivammo a Cesa Paradiso, un luogo dove l’ambiente, di natura carsica e prettamente rocciosa, concede un poco di  spazio  a piccoli fazzoletti di terra coltivabile, comunemente chiamati cese.  Da questi mini appezzamenti, un tempo,  alcune famiglie abbienti cercavano di ricavare  il minimo per sopravvivere.
In uno di quegli spiazzi erbosi, ci sistemammo, tirando fuori le nostre dolci vettovaglie, sistemandole sopra  fogli di cartapaglia o di fazzolettoni. Seduti in cerchio, a vicenda scrutavamo con curiosità ed interesse quello che veniva fuori dai fagottelli degli altri compagni. Ricordo ancora  il profumo ed il sapore indimenticabile  di quei dolci, fatti dalle mani premurose delle nostre madri. Sapori  che si provavano soprattutto nel periodo  pasquale. Profumi che nell’approssimarsi della festa, salivano dai forni e si spandevano nell’aria.
Iniziammo il convivio, scambiandoci gli assaggi e complimentandoci a vicenda.  Quell’abbuffata di roba dolce capitava solo a Pasqua, per cui cercavamo di godercela al meglio.
Ad un certo momento, uno dei ragazzi più grandi disse:

- wajù, volimo i a Muro Pezzuto, a vedé la bomba?

Muro Pezzuto è una zona del Monte Arunzo distante alcune centinaia di metri a nord-ovest di Cesa Paradiso e dove spesso, di sera, si lasciavano i muli a pascolare durante la notte, per  poi recuperarli  al mattino seguente.  In quel posto, come raccontavano alcuni giovani mulattieri, c’era una bomba d’aereo, di piccole dimensioni, inesplosa. 
La proposta  venne accettata da tutti e, finita la nostra merenda ed i nostri giuochi, ci avviammo verso il luogo della bomba, seguendo Michele che conosceva  il percorso. Arrivati a destinazione, scorgemmo l’ordigno  disteso al sole su un piccolo spiazzo tra gli scogli. Eravamo tutti abbastanza emozionati e timorosi. Mamma mia! Una bomba vera che faceva paura solo a guardarla. Mi tornò  in mente lo scoppiettare dei colpi della contraerea che spesso entrava in azione  durante il periodo bellico, e quelle numerose nuvolette che  apparivano in cielo, al disopra del monte; noi bambini le guardavamo senza timore, ma le mamme ci richiamavano a casa, temendo che qualche scheggia potesse piovere sulle nostre teste. Probabilmente quella bomba era  stata lanciata in una di quelle occasioni.
Avanzammo verso di essa per guardarla meglio, da vicino. Gigino de Cabbulente, che era il più informato, intraprendente e spericolato, ci fece notare che  la bomba aveva il percussore completamente deformato; evidentemente nell’impatto, strisciando contro le roccia esso si era piegato lateralmente, senza poter penetrare verso il detonatore e far esplodere l’ordigno.  Da debita distanza, riparandoci dietro  spuntoni di roccia,  iniziammo a lanciarle delle grosse  pietre, pensando di poterla far esplodere. Benedetta incoscienza  ed ignoranza; non avevamo la benché minima idea degli effetti di un’eventuale esplosione. Credevamo che  l’unico effetto pericoloso fossero le schegge, non  considerando  lo schiacciamento che  l’enorme spostamento d’aria avrebbe procurato su di noi, facendoci volare  in aria. Comunque, nonostante i numerosi colpi andati a segno, la bomba restava immobile, quasi a sfidare la nostra testardaggine. Il solito Gigino lanciò  la proposta:

- andiamola a gettare giù dalle  rocce, sopra la Piava.
- ma che sei matto? Vuoi che ce la incolliamo fino la sopra? Ma poi se esplode fa un botto enorme e distrugge un sacco di pini; e poi ci scoprono e i carabinieri ci portano carcerato.
- ma che! La bomba non è tanto grande, e farebbe un botto come quelli che fa Jacoboni di Tagliacozzo alle feste di settembre. Dai, facciamo un po’ per uno.

Così dicendo, si caricò sulla spalla la bomba, che poteva pesare una quindicina di chili.
Tutti più o meno convinti sulla fattibilità dell’impresa e sulla non pericolosità di quel carico, tornammo indietro per lo stesso percorso, alternandoci nel trasporto.  Oltrepassata Cesa Paradiso, arrivammo all’altezza delle rocce, in prossimità de ” jo Pass’ ‘e jo lebbere”.
Qui posammo a terra il carico ed indugiando, in un momento di riflessione. 

- Che si fa?
- Dai, butta giù!

Lasciammo cadere la bomba dalla sommità del Passo del lepre, un canalone attraverso il quale si poteva, con  una certa abilità, scendere giù nella pineta. Tutti ci gettammo a terra, ma la bomba impattò a metà strada senza esplodere. Ormai si poteva dire che era stata collaudata. Non c’era pericolo che esplodesse.
Scendemmo lungo il passo tra le rocce e raggiungemmo l’ordigno e gli facemmo terminare  la caduta fino in fondo, alla base delle rocce stesse.

- E mo, che facciamo? Ci domandammo.

Il solito temerario e spericolato Gigino se ne uscì con una delle sue strane e strampalate proposte, da  incosciente  artificiere in erba:

- Sapete che faccio? Mo me la porto a casa, la taglio con la sega da ferro…, tiro via  la polvere  e porto la bomba vuota a jo cinciaro e ci rimedio un bel po’ di soldi.
- Ma che, sei pazzo? Prima di tutto è veramente pericoloso e poi,   pensi di poterla aprire come ‘na cococcia?
-Ma non state a preoccuparvi ché ci penso io; ci provo.

La trasportammo, ancora a spalla, scendendo giù, tra i pini,  verso il paese. 
Arrivati sulla strada, vicino le stalle del  Gazarino, togliemmo un filo di ferro da una siepe a ci agganciammo la bomba per il codolo, per poterla trascinare.
Gigino abitava non lontano da dove eravamo. Trascinammo quell’ordigno per tutta la discesa, fino a Pitori, come se fosse un pezzo di legno, uno di quei ciocchi  che  radunavamo davanti alla chiesa, per il fuoco di Natale.
Quando fummo nell’abitato, alcune donne che passavano, alla vista di ciò che  trascinavamo, con le  mani nei capelli gridavano:

- Madonna mé! Sant’Antonio mi!... Ma che sete pazzi!?... Brutti lazzaruni, se ‘ssa cósa  scoppia ci ammazza a tutti! Portetela via!  Lontano! Madonna mé, Madonna me  aiutaci!

Ma noi proseguivamo, tanto Gigino abitava a due passi. Lasciammo Gigino e la sua bomba nel cortiletto davanti casa sua, tornandocene, con qualche perplessità, alle nostre case.
Naturalmente il nostro artificiere in erba non riuscì nel suo intento e non so neppure quale fu la reazione dei genitori alla vista dell’oggetto; lui era abbastanza avvezzo a prenderle di santa ragione dai suoi, per quante era solito combinarne. Sta di fatto che dopo qualche tempo, era arrivato lo stracciarolo; si era sistemato nello slargo davanti  la scuola, come facevano solitamente i venditori ambulanti di allora: gli spezini, i venditori di pignate di terracotta, venditori calzature ecc..Gigino tentò di vendergli la bomba così come stava. Chiaramente l’uomo, scuotendo la testa, gli fece capire quanto quella  proposta fosse da matti.
Accidenti, e adesso che fare di quell’ingombrante fardello? Il roveto della scarpata sottostante fu il rimedio temporaneo. Vi fu gettata e vi rimase per qualche tempo, finché un giorno, alcuni compagni, ignorando che nel roveto c'era una vi  avevamo appiccato il  fuoco. Tra il fumo e le fiamme intravidi  e riconobbi la bomba e questa volta ebbi veramente paura che potesse esplodere, proprio vicino alla chiesa; rimediai una  lunga pertica e con essa la tirai fuori dal fuoco.
Non saprei dire quali altri percorsi fece, ma ricordo che rimase per molto  tempo presso la stradina che conduceva giù alle casette del Fossetello;  a quel tempo non esisteva ancora il muro di sostegno del piazzale. Giaceva lì, dentro l’alveo del fossetello che correva lungo le casette, tra l’ignorante indifferenza della gente.
La notò, finalmente, un capitano dell’esercito che, essendo sposato con una donna originaria del luogo, trascorreva le sue vacanze estive nel nostro paese.
Meravigliatissimo del fatto che un tale pericoloso ordigno potesse essere abbandonato in quel modo, avvertì immediatamente i carabinieri affinché provvedessero a rimuoverla e farla brillare in una zona lontana e sicura.
Quel giorno noi ragazzini eravamo in giro nella zona di San Rocco, che a quel tempo era quasi completamente abbandonata e  disabitata; notammo due carabinieri che passavano, sulle loro classiche biciclette nere marca Bianchi, diretti verso Tagliacozzo. Appesa alla canna di una delle biciclette c’era una grossa borsa rigonfia. Stavano trasportando la nostra bomba per  l’ultimo tratto della sua storia.
Dopo un’oretta circa, si udì in lontananza una cupa esplosione; la bomba era stata fatta esplodere  all’imboccatura della grotta di Beatrice Cenci.
Noi ragazzi  ci sentimmo quasi in dovere di  andare a fare un sopralluogo. Sul posto ritrovammo, con una certa emozione, alcune schegge della nostra bomba, da tenere come cimelio.  

mercoledì 2 settembre 2015

Ricordo lontano di un giovane morto assiderato, di Gerardo Rosci

A Petrella Liri, all’incrocio della strada per Cappadocia e per Tagliacozzo c'è ancora, sulla scarpata, una piccola croce di ferro con delle iniziali. Sono tre lettere, delle quali ricordo soltanto le ultime due: …DN (1). Certamente pochi, oramai, conoscono il motivo di quella croce in quel posto. Rivedo ancora, con gli occhi di un bambino di circa sei anni, il corpo di quel povero giovane riverso bocconi sulla neve, coperto da un telo verdastro, lì, all’incrocio della strada tra Petrella e Cappadocia. Credo che fosse l’inverno del ’44. Un inverno veramente rigido. Quell’anno di neve ne aveva fatta veramente tanta. La strada per Tagliacozzo era intransitabile e proibitiva, ciò nonostante c’era, talvolta, qualche povero disperato e temerario che, in assenza di mezzi di locomozione, si avventurava a piedi, per tornare in paese per una strada completamente deserta. Quel povero ragazzo era lì disteso, con la testa adagiata sugli avambracci seminudi ed arrossati dal gelo che gli facevano da cuscino. Sembrava che dormisse; ma era un sonno così profondo che neppure il vento gelido che gli muoveva la neve sul viso lo disturbava più. Mi avvicinai, insieme a qualche altro bambino, proprio nel momento in cui un uomo sollevava per un attimo il telo. Era un giovane di Castellafiume che in quella terribile notte, quando persino i lupi non si sarebbero mossi dalle loro tane, si era avventurato da Tagliacozzo sulla strada per raggiungere il suo paese (2). La tormenta lo aveva sorpreso lungo il cammino, ma non essendoci nessun rifugio lungo il percorso, era riuscito ad arrivare a Petrella Liri.
Solo al pensiero di come, quel povero ragazzo, si era trascinato per quei suoi ultimi tre o quattrocento metri, riprovo un brivido gelido come l’aria di quella mattina. Le impronte delle sue mani e dei suoi piedi partivano dal bivio della croce fino giù al piazzale. Qui si era avvicinato alle porte dell’osteria, chiusa da ore; non aveva avuto la forza di farsi sentire chiedendo aiuto. Nel buio più nero, che allora l’illuminazione era quasi inesistente, il poverino, disorientato ed accecato dalla neve, aveva continuato il suo disperato cammino. Procedendo carponi, mani e piedi come un animale sperduto, aveva ripreso la strada da dove era arrivato, dirigendosi verso Cappadocia. Ma lì, appena una decina di metri dopo l’incrocio la morte silenziosa e gelida era scesa su di lui, leggera, come un sonno profondo ed eterno.
Nel luglio 2015 alla croce, che qualche mese prima era stata momentaneamente rimossa per lavori, è stata data una migliore e più decorosa sistemazione, grazie alla Proloco di Petrella Liri e a Fernando D'Innocenzo, a cui vanno sinceri ringraziamenti.


Gerardo Rosci


NOTE:

(1) Dai commenti di alcuni parenti sono venuto a conoscenza del significato delle iniziali: Aniceto Di Nicola.

(2) Aniceto, che aveva 19 anni, tornava in realtà dal lavoro da Carsoli, dopo aver percorso Colli di Montebove in una tormenta di neve. Arrivato a Tagliacozzo si era avventurato ancora verso Cappadocia. Era il 17 gennaio 1944.

giovedì 13 agosto 2015

Gli antichi mestieri di Cappadocia

Domenica 9 agosto 2015 si è svolta la manifestazione intitolata "Per le vie del borgo", organizzata dalla Pro Loco. Lungo i vicoli del paese sono stati rappresentati gli antichi mestieri di Cappadocia, svolti per secoli dai suoi abitanti. 

A seguire le foto della manifestazione, scattate da Alessandro Fiorillo, con le didascalie di Gerardo Rosci.


Questa foto è stata scattata da Lorenzo Fiorillo.














Quest'operazione si effettuava prevalentemente per i legumi, che venivano battuti con jo mazzafrusto, costituito da due bastoni legati insieme alle estremità, usati come una frusta. Quindi si toglieva via il grosso e si "ventilava" il resto, cioè, lo si faceva cadere più volte da una certa altezza, per far si che il vento separasse i semi dai vari residui. Poi, con jo pelliccio si completava il procedimento.


Usando jo mazzafrusto si battono e si sgusciano i legumi.


Ogni tanto il falciatore doveva piantare nel terreno la sua tipica incudine per ricreare, col martello, il filo della falce. Poi ogni tanto, quando era necessario, dava una passata con la "cota" (pietra coti).












Mulo e mulattiere prestati all'agricoltura; il mulo è equipaggiato per trainare una pertecara.






ARROTINOOOOO! Indovinello malizioso: "Arrotino de Campobasso piglia la moglie e la porta a spasso, po’ l'appoggia a ‘no cantone e ci metto jo bastone". Non è quello che maliziosamente avete pensato…ma è la scopa, portata in giro per la casa e poi riposta in un angolo.


I "sarturi"


Si lavorava e si chiacchierava; tanto. Si parlava dei fatti della gente; si tagliava...e si cuciva…






Gira la forgia Lore', sinno' l'acqua rammore jo foco!


Il fabbro.






Quando la ciociara se marita, a chi tira lo spago e a chi la ciocia...e quando la ciociara s'è maritata..., lo spago è rotto e la ciocia è sfasciata...


Pastori, casceri e casciaregli.




Qui, tolta la cagliata, resta un siero da riscaldare e farci la ricotta. Aggiungendovi un po’ di latte intero, si riporta a un bollore che non sbotta. E a questo punto, con la schiumarola, si tira su quella gustosa panna, che stimola il tuo naso e la tua gola, come la si faceva alla capanna. E qui, torna la voglia d’impanata, la zuppa calda di ricotta e pane; saziava dopo qualche cucchiaiata, mentre che il siero lo si dava al cane. La ricotta va dentro le fiscelle, che un tempo erano in fibra vegetale, e nei ricordi sembrano più belle, di queste fatte in plastica industriale.




Le pecore venivano carosate dal carosino.






Nel periodo pasquale veniva lucidata, con cenere ed aceto, tutta l'utensileria di rame, e la casa risplendeva.


Le "lavandare".






E se il sapone cadeva in fondo alla vasca? Lo si ripescava con uno spiedo.




La vecchia osteria.

 








Lei che lavoro fa? Sono un artista, faccio opere di misericordia corporali. ? Vesto gli ignudi. Sarto? No, impaglio i fiaschi.