Non oro, non incenso, non mirra, ma legna,
tanta legna per il fuoco di Natale davanti alla chiesa; questo era il dono che
noi ragazzi offrivamo, con orgoglio, al Bambinello.
“Léna, léna, léna pe jo foch'e Natale a
sera!...”, era il richiamo che lanciavamo noi ragazzini di allora, a Pertrella
Liri; ci eravamo investiti dell’incarico di raccogliere la legna per il fuoco
di Natale. Un fuoco più grande possibile che potesse raggiungere con il suo
calore, il Bambinello sull'altare là, in fondo alla chiesa. Andavamo in giro
per il paese richiamando l’attenzione delle donne e farci dare un “ciocco”
"per riscaldare il Bambinello".A bassa voce, poi, ripetevamo: “legna,
legna noi vogliamo, se non la date la rubiamo!...” Si, la voglia di realizzare
un falò molto grande, ci faceva sentire, molto spesso, autorizzati dallo stesso
Bambinello, a rubare pezzi di legna da quelle cataste che si trovavano,
numerose, in strada vicino alle abitazioni. Si, le cataste, che erano la scorta
per tutto l’anno, erano alla portata di tutti, ma nessuno del paese avrebbe
osato toccarle; sarebbe stata una vergogna. Ma questo non valeva per noi: noi
eravamo scusati dal fine benefico... Ma i proprietari, qualche volta, se si ne
accorgevano e venivano a riprendersi il maltolto, molto spesso con gli
interessi, davanti alla chiesa.
Tutti noi ragazzi dovevamo, o avremmo dovuto,
partecipare alla raccolta; se qualcuno svicolava, cercando di non farsi vedere,
noi lo minacciavamo avvisandolo di non presentarsi assolutamente a riscaldarsi
davanti al fuoco, durante la festa. Anzi, quando lo si vedeva, veniva fatto
bersaglio dei nostri insulti e delle nostre sassate; e a lanciare i sassi, vi
assicuro, eravamo tutti dei veri campioni; non miravamo mai al bersaglio
grosso, ma lanciavamo il sasso raso terra per colpire, eventualmente, le gambe.
Eravamo i primi “gambizzatori”. Oggi certe cose non si concepiscono, ma noi
eravamo ruspanti ed un po’ selvaggi, ma certamente non violenti come certi
personaggi virtuali delle play station. Noi questa roba non l’avevamo, e se
c’era da litigare lo si faceva con una lotta a sbattere a terra, senza pugni o
contusioni, ma dopo si tornava amici come prima. Certamente qualche sassata a
volte arrivava in testa…e i segni li si poteva notare quando si veniva
“tosati”; infatti, allora, per noi ragazzini c’era solo un tipo di taglio di
capelli: cortissimi o, come spesso capitava, a zero; per questo servizio, non
essendoci un barbiere in paese, alcuni si avvalevano delle capacità di qualche
familiare, quasi sempre il padre; in tal caso, l’opera non era quasi mai
perfetta, anzi, il più delle volte uscivano fuori delle teste piene di
sforbiciate a scale che suscitavano ilarità e commenti:
“Co tutte ‘sse scale ‘n capo po’ azzeccà fino
‘n Paradiso!;
e poi bisognava sopportare anche le
canzonature di qualcuno che diceva: “Coccia pelata senza capigli, tutta la
notte ci cantano i grilli e ci fao la serenata, bona sera coccia pelata!”;
altri si andava a Cappadocia, da Vincenzino, che era, allo stesso tempo,
barbiere, calzolaio, edicolante, fonte di qualsiasi informazione e pettegolezzo
e non so che altro. Chi avrebbe mai potuto immaginare un taglio a caschetto, o
lungo come le femmine! E poi come ci saremmo potuti difendere dai pidocchi? Le
nostre madri ci ispezionavano spesso e ci facevano pettinare col pettine
“fitto” previa una passatina di olio d’oliva, misto a petrolio, sulla cute.
I nostri pantaloni non erano “firmati”, ma
fermati da bretelle (straccàli) o da qualche vecchia cinta; qualche ragazzo li
portava corti anche d’inverno, nonostante il freddo.
Quando i ciocchi erano troppo pesanti, li
assicuravamo ad una corda, od altro, a cui fissavamo una serie di bastoni
equidistanti l’uno dall’altro, che fungevano da maniglie per altrettante coppie
di ragazzi, per trascinarli via come tanti cani da slitta. In questo modo
riuscivamo a trasportare, fin davanti alla chiesa, con il freddo e con il
fango, anche dei tronchi abbastanza grandi, abbandonati fuori paese.
Poi, quando arrivava il momento, la sera della
vigilia di Natale, con l’aiuto di qualche adulto se ne faceva un grande
mucchio, davanti la chiesa, e lo si accendeva. Che riverente eccitazione, che
soddisfazione nel riscaldarsi a quel fuoco! Finalmente ci sentivamo coinvolti
ed importanti al pari degli adulti; noi eravamo in prima fila; loro erano un
po’ più arretrati, con le braccia al disopra delle nostre spalle, tese verso le
fiamme a mani spalancate; poi, prima di cena, si assisteva alla funzione
religiosa serale. Il “cenone”, anche se abbastanza frugale, era sempre un
grande avvenimento; chiaramente era a base di magro: spaghetti aglio e olio
oppure col sugo di tonno; per secondo c’era quasi sempre l’anguilla marinata
con contorno. Poi c’era la frutta: un’arancia o un mandarino e qualche “ficora”
(fico secco). In fine, è il caso di dire “dulcis in fundo”, cera un pezzo di
“nucciata”, cioè, una specie di torrone fatto in casa, a base di farina, frutta
secca, zucchero, miele, e non so che altro; ricordo solo che era tanto buono.
Però, era ancora più buono, perché era una novità che non tutti si potevano
permettere, un pezzetto di torrone bianco, quello che si comprava al negozio.
C’era, poi, la letterina di Natale, che l’insegnante ci aveva fatto scrivere,
sotto dettatura, con tante belle parole che non avremmo mai avuto il coraggio
di dire ai nostri genitori direttamente; non ci saremmo mai rivolti a loro in
italiano, perché i sentimenti si esprimevano nella lingua materna, in dialetto;
c’erano anche le promesse di essere più buoni; semplici ed innocenti bugie,
scritte al fine di rimediare un po’ di soldi… che ci permettevano di poter
giuocare a tombola con gli amici, in attesa della nascita del Bambinello. Non
in tutte le famiglie si giuocava quella sera, ma i giovani ed i ragazzi,
normalmente, si riunivano in casa di altri amici, per giocare a tombola, a
mazzetto, a sette e mezzo, a mercante in fiera od altro. All’approssimarsi
della mezzanotte si stava con l’orecchio teso per sapere quante volte avessero
suonato le campane per la messa di mezzanotte. Alla messa di mezzanotte non si
poteva assolutamente mancare; le assenze dalla messa erano sempre notate dai
parenti. L’atmosfera era veramente magica; a quell’ora, in altre notti,
normalmente si dormiva; non era ancora stato importato quel buffo personaggio,
vecchio e grasso, vestito di rosso. Ma chi se lo immaginava uno strano
personaggio con la barba bianca. Non era ancora stato raffigurato nei nostri
libri di lettura. E poi, che senso avrebbero avuto delle renne scandinave, in
un paesino come il nostro? Le nostre capre e lenostre mucche le avrebbero
rimandate via a forza di cornate…. Ma il consumismo globale ce lo ha, poi,
quasi imposto, relegando in un angolo il caro, poetico e semplice presepe. Quel
presepe che, quando ero bambino, ad ogni Natale realizzavo in un angolo della
casa, con quel bel muschio rigonfio, che abbondava nei nostri boschi. Un
presepe semplice e povero; i personaggi non erano tridimensionali; non avendo
la disponibilità, né un negozio in paese dove, eventualmente acquistarli, me li
costruivo ritagliandoli dalle cartoline d’auguri natalizi, e li sistemavo lì,
in quelle stradine fatte con la rena, tra collinette spruzzate di farina.
Avevamo il Bambinello, noi; e poi c’era la
Befana che ci stava aspettando tra qualche giorno, per riempire, con qualche
caramella, un torroncino, mandarini e fichi secchi, le nostra calze di cotone
nero, con la soletta bianca, fatte con i ferri dalle nostre donne. Aspettavamo
con ansia la nostra cara e dolce vecchietta, che non era brutta come la
rappresentano ora, ma dolce e premurosa, come le nostre nonne. Tinta di
fuliggine, volava silenziosa di tetto in tetto, con il suo sacco pieno di cose
buone, infilandosi magicamente nelle calde canne dei numerosi camini.
Le campane che chiamavano i fedeli alla messa,
suonavano tre volte, ad un intervallo di una decina di minuti; l’ultima
chiamata terminava con il suono prolungato della campana piccola; si diceva che
“accennava”, cioè, che era ora di entrare in chiesa.
Ci si avviava verso la chiesa, alla fioca
luce dell’illuminazione di allora. Nelle strade semibuie, sotto un cielo
superstellato, ci si incontrava, con altri amici paesani; ci si riconosceva a
distanza ravvicinata, all’ultimo momento, e ci si salutava chiamandosi per
nome.
- Aoh, commare Marì! Bon Natale,!
- Compare Francì, bon Natale; non te stevo a
reconosce co ‘sto scuro. Ha accennato?
- Ancora no, ha sonato du vote, ma sta pe
accennà. Ecco tocca camminà piano piano ché co ‘sta cria de nève s’ha da sta
atténti, se no ci nne iamo pe tera.
- St’anno de nève n’ha fatta poca, però fa
tanto friddo! E po’ stanotte, co ‘sto cielo stellato le strade s’hao gelate.
- Eh, sci, doppo sta poca neve s’è misso a
tramontana e s’è gelato tutto e jo vénto arza ‘na beferina che te sbatte
addósso e te spacca la faccia.
Le donne anziane, col fazzolettone in testa,
procedevano piano, con cautela; sotto i pesanti scialli tenevano tra le mani lo
scaldino di terracotta, con dentro la brace, coperta di cenere perché potesse
durare più a lungo.
Durante il percorso qualche giovanotto si
avvicinava a loro, con una sigaretta spenta in mano salutando:
- Ciao zia Nicoli’, me faristi appiccià
daglio scallino? I prosperi ji tengo, ma me ss’ao mpussi, e non s’appicciano.
Grazie Zia Nicoli’, Bon Natale.
- Grazie beglio mi, Bon Natale pure a ti.
Madonna, comme te si fatto rosso; ma già fumi? Eh, jo fume fa male alla
saccoccia!
Con un sorriso, acconsentivano di buon grado
che avvicinassero il loro viso al loro scaldino. Consigliavano di non fumare,
non tanto per la salute, perché allora non si conoscevano molto i danni
procurati dal fumo, ma di non bruciare i soldi in quel modo.
Nella semi oscurità, ci si ritrovava di
nuovo, tutti davanti alla chiesa, a strofinare le mani verso il fuoco; i volti
illuminati dalla fiamma, con gli occhi ed il naso strizzati per il calore e per
il fumo, si sorridevano e si scambiavano frasi d’auguri. Ci si riscaldava anche
dietro, volgendo le spalle al falò. Le donne, avvolte nei loro scialle,
entravano direttamente in chiesa mentre molti uomini indugiavano, aspettando
che il sacrestano suonasse a distesa quella campanella accanto alla porta della
sacrestia. All’ingresso della chiesa c’era sempre una scopa, come anche
all’ingresso delle abitazioni, con la quale ci si puliva le scarpe dalla neve,
per no portarsela dentro. Quella grande chiesa nuova era terribilmente gelida,
con quelle mattonelle in graniglia di cemento e con quella volta così alta; mia
madre se ne lamentava spesso; a quel tempo non c’era nessun sistema di
riscaldamento.
La messa aveva carattere solenne, cioè, era
cantata. Angeluccio il sacrestano, dopo aver acceso tutte le luci, anche quelle
dei tre grandi lampadari che pendevano dall’alto dell’arco dell’abside, suonava
a distesa ed a lungo la campanella, con aria seria e quasi autoritaria, come si
addiceva alla circostanza. Quindi, come organista e cantore, andava a sedersi
all’armonium, dietro l’altare, mentre Don Serafino, l’anziano sacerdote
officiante, saliva sull’altare, accompagnato da uno o due ragazzi chierichetti.
Normalmente, alla messa solenne della domenica, quella delle undici, lui da
solo eseguiva la parte cantata; dopo essersi schiarita la gola con qualche
sonoro colpo di tosse, iniziava il canto, accompagnato da una limitato giro di
accordi di quell’armonium, al cui suono si univa il cigolio dei pedali. A
Natale però, come anche durante le festività di riguardo, c’era sempre qualche
altro cantore che si univa di rinforzo, a formare un duetto od un trio. La voce
di testa e un po’ nasale di Angeluccio, mal si amalgamava con quella forte, gutturale
ed un po’ sguaiata di Checchino il calzolaio, o con l’altra piatta e adenoidea
di Franco, per cui ognuna di esse sforava, distinguendosi perfettamente dalle
altre; però, la loro unione, con il riverbero dalla volta dell’abside, esaltava
la solennità del Natale, e gratificava l’assemblea dei fedeli.
Iniziava con il Kyrie; poi il sacerdote
intonava il Gloria, scoprendo quel Bambinello dal viso di porcellana,
completamente avvolto, comprese le braccine, in fasce celesti, alla maniera di
come venivano rivestiti i neonati di una volta,. Il coretto proseguiva, in una
tonalità prestabilita, quasi sempre diversa da quella del sacerdote. La melodia
consisteva in una serie di brevi e veloci recitativi su una stessa nota, che
anticipavano lente frasi cantate. Dello stesso stile erano il Credo , il
Sanctus e l’Agnus Dei. Ad un certo momento della messa, veniva cantata “La
pastorella”, che era un modo locale di identificare il “Tu scendi dalle stelle
“.
Terminata la messa, la gente si ammassava
all’uscita per andarsi a ridare una scaldata davanti al fuoco. Le donne
preferivano andare direttamente a casa. Se c’era abbastanza neve, le ragazze
diventavano bersaglio delle palle di neve dei giovani, per cui, timorose,
indugiavano all’interno della chiesa. Il bravo Angeluccio doveva intervenire,
talvolta, con aria pseudo autoritaria, intimando ai ragazzi, di non infierire
con le palle di neve, ma facendo l’occhietto come per dire: tirate, tirate!
Gli uomini preferivano rimanere un poco
vicino al fuoco, a chiacchierare ed a scalarsi. Qualcuno si accendeva la pipa o
il sigaro o la sigaretta con un pezzetto di legno acceso dal falò; i fiammiferi
ce n’erano pochi; gli accendini erano una rarità, e poi, vuoi mettere il gusto
di accendere direttamente dal fuoco? Era un’altra cosa. Qualche vecchio
prendeva direttamente con la mano un piccolo carbone acceso e, facendolo
saltellare nella mano callosa, per non scottarsi, lo faceva ricadere sul
fornello della sua pipa di terracotta, che aveva caricata con il tabacco di un
“mozzone” di sigaro toscano.
Per più di tre giorni, quel fuoco continuava
a bruciare, e noi ragazzi lo accudivamo soddisfatti, sperando che il suo calore
potesse raggiungere, miracolosamente, il Bambinello esposto sull’altare, al
freddo di quella gelida chiesa.
Fino all’Epifania,il Bambinello restava
esposto. In tale lasso di tempo, si facevano preghiere e devozioni: quelle più
frequenti erano gli “strascini”, che consistevano nel percorrere, una o più
volte, in ginocchio, tutta la lunghezza della fredda navata centrale della
chiesa, recitando il Credo ed altre preghiere, fin sotto l’altare. I genitori
ci incoraggiavano spesso a fare tali devozioni:
- Beglio de mamma, vatte a fa ‘n po’ de
strascini a jo Bambineglio.
Ed io ci andavo e
correvo sulle mie ginocchia, sorpassando qualche anziana devota che, col
fazzolettone sulla testa, avanzava lentamente, tenendosi con una mano le lunghe
“wunnelle”, bisbigliando con profonda devozione le sue preghiere in un latino
approssimativo, storpiato ed a lei incomprensibile, sicura, comunque, che erano
preghiere che il Bambinello avrebbe sentite e le avrebbe capite ugualmente.
Gerardo Rosci.
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