lunedì 21 dicembre 2015

Il nostro dono per il Bambin Gesù, di Gerardo Rosci

Non oro, non incenso, non mirra, ma legna, tanta legna per il fuoco di Natale davanti alla chiesa; questo era il dono che noi ragazzi offrivamo, con orgoglio, al Bambinello.
“Léna, léna, léna pe jo foch'e Natale a sera!...”, era il richiamo che lanciavamo noi ragazzini di allora, a Pertrella Liri; ci eravamo investiti dell’incarico di raccogliere la legna per il fuoco di Natale. Un fuoco più grande possibile che potesse raggiungere con il suo calore, il Bambinello sull'altare là, in fondo alla chiesa. Andavamo in giro per il paese richiamando l’attenzione delle donne e farci dare un “ciocco” "per riscaldare il Bambinello".A bassa voce, poi, ripetevamo: “legna, legna noi vogliamo, se non la date la rubiamo!...” Si, la voglia di realizzare un falò molto grande, ci faceva sentire, molto spesso, autorizzati dallo stesso Bambinello, a rubare pezzi di legna da quelle cataste che si trovavano, numerose, in strada vicino alle abitazioni. Si, le cataste, che erano la scorta per tutto l’anno, erano alla portata di tutti, ma nessuno del paese avrebbe osato toccarle; sarebbe stata una vergogna. Ma questo non valeva per noi: noi eravamo scusati dal fine benefico... Ma i proprietari, qualche volta, se si ne accorgevano e venivano a riprendersi il maltolto, molto spesso con gli interessi, davanti alla chiesa.
Tutti noi ragazzi dovevamo, o avremmo dovuto, partecipare alla raccolta; se qualcuno svicolava, cercando di non farsi vedere, noi lo minacciavamo avvisandolo di non presentarsi assolutamente a riscaldarsi davanti al fuoco, durante la festa. Anzi, quando lo si vedeva, veniva fatto bersaglio dei nostri insulti e delle nostre sassate; e a lanciare i sassi, vi assicuro, eravamo tutti dei veri campioni; non miravamo mai al bersaglio grosso, ma lanciavamo il sasso raso terra per colpire, eventualmente, le gambe. Eravamo i primi “gambizzatori”. Oggi certe cose non si concepiscono, ma noi eravamo ruspanti ed un po’ selvaggi, ma certamente non violenti come certi personaggi virtuali delle play station. Noi questa roba non l’avevamo, e se c’era da litigare lo si faceva con una lotta a sbattere a terra, senza pugni o contusioni, ma dopo si tornava amici come prima. Certamente qualche sassata a volte arrivava in testa…e i segni li si poteva notare quando si veniva “tosati”; infatti, allora, per noi ragazzini c’era solo un tipo di taglio di capelli: cortissimi o, come spesso capitava, a zero; per questo servizio, non essendoci un barbiere in paese, alcuni si avvalevano delle capacità di qualche familiare, quasi sempre il padre; in tal caso, l’opera non era quasi mai perfetta, anzi, il più delle volte uscivano fuori delle teste piene di sforbiciate a scale che suscitavano ilarità e commenti:
“Co tutte ‘sse scale ‘n capo po’ azzeccà fino ‘n Paradiso!;
e poi bisognava sopportare anche le canzonature di qualcuno che diceva: “Coccia pelata senza capigli, tutta la notte ci cantano i grilli e ci fao la serenata, bona sera coccia pelata!”; altri si andava a Cappadocia, da Vincenzino, che era, allo stesso tempo, barbiere, calzolaio, edicolante, fonte di qualsiasi informazione e pettegolezzo e non so che altro. Chi avrebbe mai potuto immaginare un taglio a caschetto, o lungo come le femmine! E poi come ci saremmo potuti difendere dai pidocchi? Le nostre madri ci ispezionavano spesso e ci facevano pettinare col pettine “fitto” previa una passatina di olio d’oliva, misto a petrolio, sulla cute.
I nostri pantaloni non erano “firmati”, ma fermati da bretelle (straccàli) o da qualche vecchia cinta; qualche ragazzo li portava corti anche d’inverno, nonostante il freddo.
Quando i ciocchi erano troppo pesanti, li assicuravamo ad una corda, od altro, a cui fissavamo una serie di bastoni equidistanti l’uno dall’altro, che fungevano da maniglie per altrettante coppie di ragazzi, per trascinarli via come tanti cani da slitta. In questo modo riuscivamo a trasportare, fin davanti alla chiesa, con il freddo e con il fango, anche dei tronchi abbastanza grandi, abbandonati fuori paese.
Poi, quando arrivava il momento, la sera della vigilia di Natale, con l’aiuto di qualche adulto se ne faceva un grande mucchio, davanti la chiesa, e lo si accendeva. Che riverente eccitazione, che soddisfazione nel riscaldarsi a quel fuoco! Finalmente ci sentivamo coinvolti ed importanti al pari degli adulti; noi eravamo in prima fila; loro erano un po’ più arretrati, con le braccia al disopra delle nostre spalle, tese verso le fiamme a mani spalancate; poi, prima di cena, si assisteva alla funzione religiosa serale. Il “cenone”, anche se abbastanza frugale, era sempre un grande avvenimento; chiaramente era a base di magro: spaghetti aglio e olio oppure col sugo di tonno; per secondo c’era quasi sempre l’anguilla marinata con contorno. Poi c’era la frutta: un’arancia o un mandarino e qualche “ficora” (fico secco). In fine, è il caso di dire “dulcis in fundo”, cera un pezzo di “nucciata”, cioè, una specie di torrone fatto in casa, a base di farina, frutta secca, zucchero, miele, e non so che altro; ricordo solo che era tanto buono. Però, era ancora più buono, perché era una novità che non tutti si potevano permettere, un pezzetto di torrone bianco, quello che si comprava al negozio. C’era, poi, la letterina di Natale, che l’insegnante ci aveva fatto scrivere, sotto dettatura, con tante belle parole che non avremmo mai avuto il coraggio di dire ai nostri genitori direttamente; non ci saremmo mai rivolti a loro in italiano, perché i sentimenti si esprimevano nella lingua materna, in dialetto; c’erano anche le promesse di essere più buoni; semplici ed innocenti bugie, scritte al fine di rimediare un po’ di soldi… che ci permettevano di poter giuocare a tombola con gli amici, in attesa della nascita del Bambinello. Non in tutte le famiglie si giuocava quella sera, ma i giovani ed i ragazzi, normalmente, si riunivano in casa di altri amici, per giocare a tombola, a mazzetto, a sette e mezzo, a mercante in fiera od altro. All’approssimarsi della mezzanotte si stava con l’orecchio teso per sapere quante volte avessero suonato le campane per la messa di mezzanotte. Alla messa di mezzanotte non si poteva assolutamente mancare; le assenze dalla messa erano sempre notate dai parenti. L’atmosfera era veramente magica; a quell’ora, in altre notti, normalmente si dormiva; non era ancora stato importato quel buffo personaggio, vecchio e grasso, vestito di rosso. Ma chi se lo immaginava uno strano personaggio con la barba bianca. Non era ancora stato raffigurato nei nostri libri di lettura. E poi, che senso avrebbero avuto delle renne scandinave, in un paesino come il nostro? Le nostre capre e lenostre mucche le avrebbero rimandate via a forza di cornate…. Ma il consumismo globale ce lo ha, poi, quasi imposto, relegando in un angolo il caro, poetico e semplice presepe. Quel presepe che, quando ero bambino, ad ogni Natale realizzavo in un angolo della casa, con quel bel muschio rigonfio, che abbondava nei nostri boschi. Un presepe semplice e povero; i personaggi non erano tridimensionali; non avendo la disponibilità, né un negozio in paese dove, eventualmente acquistarli, me li costruivo ritagliandoli dalle cartoline d’auguri natalizi, e li sistemavo lì, in quelle stradine fatte con la rena, tra collinette spruzzate di farina.
Avevamo il Bambinello, noi; e poi c’era la Befana che ci stava aspettando tra qualche giorno, per riempire, con qualche caramella, un torroncino, mandarini e fichi secchi, le nostra calze di cotone nero, con la soletta bianca, fatte con i ferri dalle nostre donne. Aspettavamo con ansia la nostra cara e dolce vecchietta, che non era brutta come la rappresentano ora, ma dolce e premurosa, come le nostre nonne. Tinta di fuliggine, volava silenziosa di tetto in tetto, con il suo sacco pieno di cose buone, infilandosi magicamente nelle calde canne dei numerosi camini.
Le campane che chiamavano i fedeli alla messa, suonavano tre volte, ad un intervallo di una decina di minuti; l’ultima chiamata terminava con il suono prolungato della campana piccola; si diceva che “accennava”, cioè, che era ora di entrare in chiesa.
Ci si avviava verso la chiesa, alla fioca luce dell’illuminazione di allora. Nelle strade semibuie, sotto un cielo superstellato, ci si incontrava, con altri amici paesani; ci si riconosceva a distanza ravvicinata, all’ultimo momento, e ci si salutava chiamandosi per nome.
- Aoh, commare Marì! Bon Natale,!
- Compare Francì, bon Natale; non te stevo a reconosce co ‘sto scuro. Ha accennato?
- Ancora no, ha sonato du vote, ma sta pe accennà. Ecco tocca camminà piano piano ché co ‘sta cria de nève s’ha da sta atténti, se no ci nne iamo pe tera.
- St’anno de nève n’ha fatta poca, però fa tanto friddo! E po’ stanotte, co ‘sto cielo stellato le strade s’hao gelate.
- Eh, sci, doppo sta poca neve s’è misso a tramontana e s’è gelato tutto e jo vénto arza ‘na beferina che te sbatte addósso e te spacca la faccia.
Le donne anziane, col fazzolettone in testa, procedevano piano, con cautela; sotto i pesanti scialli tenevano tra le mani lo scaldino di terracotta, con dentro la brace, coperta di cenere perché potesse durare più a lungo.
Durante il percorso qualche giovanotto si avvicinava a loro, con una sigaretta spenta in mano salutando:
- Ciao zia Nicoli’, me faristi appiccià daglio scallino? I prosperi ji tengo, ma me ss’ao mpussi, e non s’appicciano. Grazie Zia Nicoli’, Bon Natale.
- Grazie beglio mi, Bon Natale pure a ti. Madonna, comme te si fatto rosso; ma già fumi? Eh, jo fume fa male alla saccoccia!
Con un sorriso, acconsentivano di buon grado che avvicinassero il loro viso al loro scaldino. Consigliavano di non fumare, non tanto per la salute, perché allora non si conoscevano molto i danni procurati dal fumo, ma di non bruciare i soldi in quel modo.
Nella semi oscurità, ci si ritrovava di nuovo, tutti davanti alla chiesa, a strofinare le mani verso il fuoco; i volti illuminati dalla fiamma, con gli occhi ed il naso strizzati per il calore e per il fumo, si sorridevano e si scambiavano frasi d’auguri. Ci si riscaldava anche dietro, volgendo le spalle al falò. Le donne, avvolte nei loro scialle, entravano direttamente in chiesa mentre molti uomini indugiavano, aspettando che il sacrestano suonasse a distesa quella campanella accanto alla porta della sacrestia. All’ingresso della chiesa c’era sempre una scopa, come anche all’ingresso delle abitazioni, con la quale ci si puliva le scarpe dalla neve, per no portarsela dentro. Quella grande chiesa nuova era terribilmente gelida, con quelle mattonelle in graniglia di cemento e con quella volta così alta; mia madre se ne lamentava spesso; a quel tempo non c’era nessun sistema di riscaldamento.
La messa aveva carattere solenne, cioè, era cantata. Angeluccio il sacrestano, dopo aver acceso tutte le luci, anche quelle dei tre grandi lampadari che pendevano dall’alto dell’arco dell’abside, suonava a distesa ed a lungo la campanella, con aria seria e quasi autoritaria, come si addiceva alla circostanza. Quindi, come organista e cantore, andava a sedersi all’armonium, dietro l’altare, mentre Don Serafino, l’anziano sacerdote officiante, saliva sull’altare, accompagnato da uno o due ragazzi chierichetti. Normalmente, alla messa solenne della domenica, quella delle undici, lui da solo eseguiva la parte cantata; dopo essersi schiarita la gola con qualche sonoro colpo di tosse, iniziava il canto, accompagnato da una limitato giro di accordi di quell’armonium, al cui suono si univa il cigolio dei pedali. A Natale però, come anche durante le festività di riguardo, c’era sempre qualche altro cantore che si univa di rinforzo, a formare un duetto od un trio. La voce di testa e un po’ nasale di Angeluccio, mal si amalgamava con quella forte, gutturale ed un po’ sguaiata di Checchino il calzolaio, o con l’altra piatta e adenoidea di Franco, per cui ognuna di esse sforava, distinguendosi perfettamente dalle altre; però, la loro unione, con il riverbero dalla volta dell’abside, esaltava la solennità del Natale, e gratificava l’assemblea dei fedeli.
Iniziava con il Kyrie; poi il sacerdote intonava il Gloria, scoprendo quel Bambinello dal viso di porcellana, completamente avvolto, comprese le braccine, in fasce celesti, alla maniera di come venivano rivestiti i neonati di una volta,. Il coretto proseguiva, in una tonalità prestabilita, quasi sempre diversa da quella del sacerdote. La melodia consisteva in una serie di brevi e veloci recitativi su una stessa nota, che anticipavano lente frasi cantate. Dello stesso stile erano il Credo , il Sanctus e l’Agnus Dei. Ad un certo momento della messa, veniva cantata “La pastorella”, che era un modo locale di identificare il “Tu scendi dalle stelle “.
Terminata la messa, la gente si ammassava all’uscita per andarsi a ridare una scaldata davanti al fuoco. Le donne preferivano andare direttamente a casa. Se c’era abbastanza neve, le ragazze diventavano bersaglio delle palle di neve dei giovani, per cui, timorose, indugiavano all’interno della chiesa. Il bravo Angeluccio doveva intervenire, talvolta, con aria pseudo autoritaria, intimando ai ragazzi, di non infierire con le palle di neve, ma facendo l’occhietto come per dire: tirate, tirate!
Gli uomini preferivano rimanere un poco vicino al fuoco, a chiacchierare ed a scalarsi. Qualcuno si accendeva la pipa o il sigaro o la sigaretta con un pezzetto di legno acceso dal falò; i fiammiferi ce n’erano pochi; gli accendini erano una rarità, e poi, vuoi mettere il gusto di accendere direttamente dal fuoco? Era un’altra cosa. Qualche vecchio prendeva direttamente con la mano un piccolo carbone acceso e, facendolo saltellare nella mano callosa, per non scottarsi, lo faceva ricadere sul fornello della sua pipa di terracotta, che aveva caricata con il tabacco di un “mozzone” di sigaro toscano.
Per più di tre giorni, quel fuoco continuava a bruciare, e noi ragazzi lo accudivamo soddisfatti, sperando che il suo calore potesse raggiungere, miracolosamente, il Bambinello esposto sull’altare, al freddo di quella gelida chiesa.
Fino all’Epifania,il Bambinello restava esposto. In tale lasso di tempo, si facevano preghiere e devozioni: quelle più frequenti erano gli “strascini”, che consistevano nel percorrere, una o più volte, in ginocchio, tutta la lunghezza della fredda navata centrale della chiesa, recitando il Credo ed altre preghiere, fin sotto l’altare. I genitori ci incoraggiavano spesso a fare tali devozioni:
- Beglio de mamma, vatte a fa ‘n po’ de strascini a jo Bambineglio.
Ed io ci andavo e correvo sulle mie ginocchia, sorpassando qualche anziana devota che, col fazzolettone sulla testa, avanzava lentamente, tenendosi con una mano le lunghe “wunnelle”, bisbigliando con profonda devozione le sue preghiere in un latino approssimativo, storpiato ed a lei incomprensibile, sicura, comunque, che erano preghiere che il Bambinello avrebbe sentite e le avrebbe capite ugualmente.


Gerardo Rosci.

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