Quante volte abbiamo sentito parlare dei briganti,
di questi personaggi circondati spesso da un aura quasi leggendaria, che nel
corso dei secoli, soprattutto nel XVI e nella seconda metà del XIX sec., hanno
costruito la loro fama passando per una successione di imprese criminali,
talvolta legate a confusi ideali politico-sociali. Da Marco Sciarra alle Bande
Pastore, Mancini e Chiavone, la Marsica e la Valle Roveto sono state uno dei
teatri privilegiati e più battuti dalle “soldataglie” irregolari di un
esercito borbonico in rovina, che attraverso scontri con le truppe piemontesi
e scorribande nei diversi paesi della Conca Fucense e del Cicolano, hanno
consolidato e accresciuto la fama dei loro capi-briganti combattendo una
guerra che per quanto abbia messo spesso in seria difficoltà i nuovi tutori
dell’ordine, restava una guerra persa in partenza.
LE ORIGINI…MARCO SCIARRA
Era l’autunno del 1590 e in Roma i cardinali erano riuniti in conclave per eleggere il successore di Urbano VII (1). Da giorni circolava incessante una voce, quella che un gruppo di agguerriti banditi era pronta ad entrare nella città pontificia per ricattare e interferire sugli esiti delle scelte dei cardinali. In effetti da tempo alle porte di Roma scorrazzavano due formazioni di fuorilegge, protagoniste di saccheggi e tumulti, alla cui testa vi erano i più celebri capi-banditi dell’epoca: Marco Sciarra (2) e Battistello da Fermo. Il primo era abruzzese, “homo, benché di vil condizione, d’animo e di spirito elevato” come ebbe a dire Tommaso Costo, scrittore napoletano del tempo. Lo Sciarra si fece brigante nel 1584, e fin da subito, grazie alla sua forte personalità e a un notevole ascendente, si pose a capo di una banda composta da un migliaio di uomini. Riuscì a scampare ad ogni tentativo di repressione per lunghi sette anni, nel corso dei quali fu protagonista di decine e decine di azioni criminali. Partendo dall’Abruzzo, l’esercito dello Sciarra entrava di frequente nel territorio dello Stato Pontificio, dalle Marche alla campagna romana. Lo storico Rosario Villari ha teso a sottolineare il fatto che quella di Marco Sciarra più che “un accolta di fuorilegge disperati…era una vera e propria formazione di guerriglieri”. Luogotenenti dello Sciarra erano Pacchiarotto, il già citato Battistello da Fermo e il fratello Luca Sciarra. Tutti coloro che volevano unirsi alla banda, ricevevano regolare paga, ma dovevano pure rispettare le norme di comportamento conformi all’ “ideale sociale” del capo. Si racconta che il famoso brigante abruzzese amava definirsi “Marcus Sciarra, flagellum Dei, et commissarius missus a Deo contra usurarios et detinentes pecunias otiosas”. E’ evidente un confuso riferimento ad un ideale sociale che portava lo Sciarra a combattere soprattutto quei rappresentanti del potere parassitario responsabili dei mali del popolo minuto. Del resto dagli stessi documenti dell’epoca traspare questo atteggiamento da Robin Hood dello Sciarra, che rubava ai ricchi per donare ai poveri, operando una redistribuzione della ricchezza a vantaggio delle classi disagiate. Non mancarono le azioni della banda orientate contro i soldati e gli ufficiali governativi del Regno di Napoli. Dopo diversi anni in cui godette dell’appoggio quasi incondizionato delle masse contadine, iniziò la fase decadente della famigerata banda, nel corso della quale questa finì per scontrarsi più volte con le stesse popolazioni che un tempo appoggiavano i banditi. Nell’aprile del 1592, mentre la banda si dirigeva verso Subiaco, chiese alle autorità di Cerreto Laziale l’autorizzazione a passare pacificamente per il paese. Il permesso non fu concesso, e i banditi incendiarono alcuni casolari e misero la zona sotto assedio. I cerretani, con il concorso di altri uomini armati provenienti dai paesi vicini, decisero di finirla con la banda dello Sciarra, e grazie ad uno stratagemma ebbero la meglio. Legarono un supporto con materiale infiammabile alle zampe posteriori di una gatta (3), trasformandola suo malgrado in “Kamikaze” da gettare all’interno dei fienili dove i banditi, accampati, dormivano. I briganti furono vinti, ma presto l’incendio divenne incontrollabile, e finì per minacciare l’intero paese. I cerretani invocarono la grazia di Sant’Agata, che si diceva aveva già fermato in Sicilia la lava dell’Etna, e miracolosamente l’incendio non si propagò alle case, e il paese si salvò. Marco Sciarra nel frattempo, sopravvissuto allo scontro con i cerretani, passò con trecento compagni al servizio della Repubblica di Venezia per combattere gli Uscocchi. Clemente VIII montò su tutte le furie, e ingiunse ai veneziani la consegna del bandito. Questi, dopo alcune resistenze, cedettero. Marco Sciarra, comprese allora di essere stato scaricato dai lagunari, che si accingevano, attraverso l’inganno, a consegnarlo alle truppe pontificie. Si diede così di nuovo alla clandestinità, e tornò nello Stato Pontificio. Sembrava invincibile, inafferrabile, ma nel 1593, vicino ad Ascoli, venne ucciso a tradimento dal compagno Battistello da Fermo, che in cambio del servigio reso ottenne la grazia dal governo papale.
IL BRIGANTAGGIO POST-UNITARIO
Quella fin qui descritta la vicenda di Marco Sciarra, il primo dei briganti dell’età moderna. Il fenomeno del brigantaggio si riaccese e visse una fase molto intensa nel corso del periodo post-unitario, quando si diffuse ampiamente nell’Italia Meridionale, compreso il territorio abruzzese. Si è discusso a lungo su quelle che possono essere state le motivazioni e le cause della nascita di questo movimento confusamente politico, di ribellione al nuovo ordine piemontese percepito come estraneo. L’Abruzzo e la Marsica negli anni della proclamazione del Regno d’Italia, si trovavano in una situazione politica e sociale difficile e precaria. La cultura era appannaggio di pochi, la maggior parte della popolazione era analfabeta e dedita all’agricoltura e alla pastorizia. Se alcuni avevano riposto delle speranze nel cambiamento susseguito alla caduta borbonica, ben presto rimase deluso, ed i piemontesi invece che liberatori furono percepiti come invasori. Ci furono rivolte e sommosse nei paesi di S.Vincenzo e S.Giovanni nella Valle Roveto, Civitella Roveto, Luco dei Marsi, Tagliacozzo, Petrella, Cappadocia, Villa S.Sebastiano, Avezzano, Celano, Scurcola, Trasacco, Collarmele, Pescina e il Carseolano. In questi difficili anni il brigantaggio di divise in due tronconi, quello delle sommosse organizzate a scopo politico e quelle che avevano come scopo il furto, la rapina, e la restaurazione della dinastia Borbonica.
EROI POPOLARI O BANDITI INCALLITI?
Anche in questo periodo, come fu per quello dello Sciarra, piuttosto sottile e ben poco evidente è la linea di demarcazione che distingue il brigante-eroe popolare dal brigante bandito incallito e senza scrupoli. Molto spesso gli eserciti piemontesi si comportavano con le popolazioni locali ben peggio di quanto facessero gli stessi briganti, ai quali invece serviva il favore e l’appoggio della gente locale, dell’ambiente nel quale si muovevano e agivano.
Numerosissime sono le azioni “brigantesche” di questi anni. Memorabili le scorribande della banda Borjes, il cui capo era Borjes Dom José della Catalogna (Spagna), venuto in Italia per combattere a favore della causa borbonica. Dopo una lunga serie di azioni, nel mentre la banda si accingeva a raggiungere lo Stato Pontificio (4), e percorreva la strada da Paterno a Scurcola Marsicana, sopraggiunse, nella mattina dell’8 dicembre 1861, il battaglione bersaglieri comandato dal maggiore Franchini. La battaglia fu violenta, Borjes fu colpito a morte dal Franchini, e gli altri briganti della banda furono catturati e fucilati nella piazza di Tagliacozzo. Altro famoso capo-brigante fu Luigi Alonzi, detto Chiavone, originario del sorano. Compì la maggior parte delle sue azioni nella Valle Roveto; autoproclamatosi Generale delle armate di Francesco II, compì numerose rapine ed angherie, e non vi è notizia certa della sua fine (5). Il brigante Domenico Cajone di S.Demetrio dei Vestini, ex bersagliere, aderì invece alla banda Mancini, e fu fucilato in Luco dei Marsi il 6 aprile del 1862, insieme al brigante Luigi Ciavarella di Scurcola Marsicana. Altro capo molto noto fu Domenico Coja, forse originario di Pescina. Fu soldato borbonico, e venne arrestato in Roma in un osteria frequentata da briganti marsicani. Di lui si persero le tracce. Ci furono persino parecchi sacerdoti briganti nelle nostre terre, come Don Antonio Cesta, sacerdote di Collelongo, che fece parte della banda di Vincenzo Matteo e fu consigliere e aiutante del capobanda Chiavone. Provocò diversi disordini, e una volta scoperto si rifugiò in meditazione presso il convento dei Cappuccini di Luco dei Marsi, ma non sfuggì all’arresto. Altri briganti prelati furono il frate cappuccino De Filippi di Collelongo, Don Corretti Arciprete di Tagliacozzo, il frate Bonaventura di Balsorano, il parroco di Civitella Roveto, e molti altri ancora. E la lista dei briganti che operarono nella Marsica continua con Antonio Maccarone, che operò soprattutto dalle parti di Secinaro, e fu particolarmente noto per il suo odio per i baffi alla piemontese (6). Nel corso delle sue scorrerie, quando incontrava qualcuno che osava sfoggiare un bel paio di baffi alla Vittorio Emanuele, non esitava a torturarlo, strappandoglieli. Quando fu catturato, prima di essere fucilato il 19 aprile 1862 a Sessa Aurunca (Caserta), gli furono strappati barba e baffi pelo per pelo. Ancora per diversi anni dopo la sua morte, nei territori dove operò, a coloro che portavano i baffi veniva detto per scherzo: “attento che arriva Maccarone!”. Altre fucilazioni di briganti si ebbero a Castellafiume, dove il 6 novembre 1862 vennero giustiziati alcuni componenti della banda Pastore (7) e a Cappadocia, dove il 18 agosto 1861 vennero fucilati il brigante cappadociano Antonio Coletti e quello di Pietrasecca Domenico Spacconi. Famoso fu pure il brigante Viola, originario del Cicolano, che firmava le sue azioni con una viola e un santino di S.Berardo (8), e di cui si ignora la fine (9). E possiamo concludere con Giacomo Giorgi, brigante di Tagliacozzo, autore di diversi assalti e scorrerie. Con la sua banda, partendo dai monti di Filettino e passando attraverso la Valle del Liri, invase Luco dei Marsi, e poi assaltò Cese, frazione di Avezzano. Nel corso di questo assalto rimase però ucciso uno dei capi briganti, colpito da una fucilata sparata dal parroco di questo paese, che costrinse i malviventi alla fuga. Giacomo Giorgi morirà nel 1877 nel penitenziario dell’Isola d’Elba, dove scontava una condanna a venti anni di lavori forzati. Ed è ancora lunghissima la lista con altre fucilazioni a Pereto, Oricola, Capistrello, Avezzano, Luco dei Marsi, ecc..
CONCLUSIONI
Insomma, il brigantaggio nelle nostre terre fu un fenomeno esteso e radicato, segno di una sofferenza profonda delle nostre genti. Questo venne alla fine debellato, e spesso finirono per essere coinvolte nella repressione persone che non avevano nulla a che fare con i banditi. La storia d’Italia è passata anche attraverso avvenimenti cruenti e dolorosi, come questi relativi alla vera e propria guerra o guerriglia che si è combattuta nella Marsica tra l’esercito del Regno d’Italia e quei contadini, pastori, delinquenti comuni, ex soldati borbonici e renitenti alla leva che sono passati alla storia come i briganti.
Avit’paura de li brigant’ alla mundagne, ma nu’jurne, dapuò, vui li portiss’li sordi allj br’gant sedut’ alla seggie (detto abruzzese) (10)
LE ORIGINI…MARCO SCIARRA
Era l’autunno del 1590 e in Roma i cardinali erano riuniti in conclave per eleggere il successore di Urbano VII (1). Da giorni circolava incessante una voce, quella che un gruppo di agguerriti banditi era pronta ad entrare nella città pontificia per ricattare e interferire sugli esiti delle scelte dei cardinali. In effetti da tempo alle porte di Roma scorrazzavano due formazioni di fuorilegge, protagoniste di saccheggi e tumulti, alla cui testa vi erano i più celebri capi-banditi dell’epoca: Marco Sciarra (2) e Battistello da Fermo. Il primo era abruzzese, “homo, benché di vil condizione, d’animo e di spirito elevato” come ebbe a dire Tommaso Costo, scrittore napoletano del tempo. Lo Sciarra si fece brigante nel 1584, e fin da subito, grazie alla sua forte personalità e a un notevole ascendente, si pose a capo di una banda composta da un migliaio di uomini. Riuscì a scampare ad ogni tentativo di repressione per lunghi sette anni, nel corso dei quali fu protagonista di decine e decine di azioni criminali. Partendo dall’Abruzzo, l’esercito dello Sciarra entrava di frequente nel territorio dello Stato Pontificio, dalle Marche alla campagna romana. Lo storico Rosario Villari ha teso a sottolineare il fatto che quella di Marco Sciarra più che “un accolta di fuorilegge disperati…era una vera e propria formazione di guerriglieri”. Luogotenenti dello Sciarra erano Pacchiarotto, il già citato Battistello da Fermo e il fratello Luca Sciarra. Tutti coloro che volevano unirsi alla banda, ricevevano regolare paga, ma dovevano pure rispettare le norme di comportamento conformi all’ “ideale sociale” del capo. Si racconta che il famoso brigante abruzzese amava definirsi “Marcus Sciarra, flagellum Dei, et commissarius missus a Deo contra usurarios et detinentes pecunias otiosas”. E’ evidente un confuso riferimento ad un ideale sociale che portava lo Sciarra a combattere soprattutto quei rappresentanti del potere parassitario responsabili dei mali del popolo minuto. Del resto dagli stessi documenti dell’epoca traspare questo atteggiamento da Robin Hood dello Sciarra, che rubava ai ricchi per donare ai poveri, operando una redistribuzione della ricchezza a vantaggio delle classi disagiate. Non mancarono le azioni della banda orientate contro i soldati e gli ufficiali governativi del Regno di Napoli. Dopo diversi anni in cui godette dell’appoggio quasi incondizionato delle masse contadine, iniziò la fase decadente della famigerata banda, nel corso della quale questa finì per scontrarsi più volte con le stesse popolazioni che un tempo appoggiavano i banditi. Nell’aprile del 1592, mentre la banda si dirigeva verso Subiaco, chiese alle autorità di Cerreto Laziale l’autorizzazione a passare pacificamente per il paese. Il permesso non fu concesso, e i banditi incendiarono alcuni casolari e misero la zona sotto assedio. I cerretani, con il concorso di altri uomini armati provenienti dai paesi vicini, decisero di finirla con la banda dello Sciarra, e grazie ad uno stratagemma ebbero la meglio. Legarono un supporto con materiale infiammabile alle zampe posteriori di una gatta (3), trasformandola suo malgrado in “Kamikaze” da gettare all’interno dei fienili dove i banditi, accampati, dormivano. I briganti furono vinti, ma presto l’incendio divenne incontrollabile, e finì per minacciare l’intero paese. I cerretani invocarono la grazia di Sant’Agata, che si diceva aveva già fermato in Sicilia la lava dell’Etna, e miracolosamente l’incendio non si propagò alle case, e il paese si salvò. Marco Sciarra nel frattempo, sopravvissuto allo scontro con i cerretani, passò con trecento compagni al servizio della Repubblica di Venezia per combattere gli Uscocchi. Clemente VIII montò su tutte le furie, e ingiunse ai veneziani la consegna del bandito. Questi, dopo alcune resistenze, cedettero. Marco Sciarra, comprese allora di essere stato scaricato dai lagunari, che si accingevano, attraverso l’inganno, a consegnarlo alle truppe pontificie. Si diede così di nuovo alla clandestinità, e tornò nello Stato Pontificio. Sembrava invincibile, inafferrabile, ma nel 1593, vicino ad Ascoli, venne ucciso a tradimento dal compagno Battistello da Fermo, che in cambio del servigio reso ottenne la grazia dal governo papale.
IL BRIGANTAGGIO POST-UNITARIO
Quella fin qui descritta la vicenda di Marco Sciarra, il primo dei briganti dell’età moderna. Il fenomeno del brigantaggio si riaccese e visse una fase molto intensa nel corso del periodo post-unitario, quando si diffuse ampiamente nell’Italia Meridionale, compreso il territorio abruzzese. Si è discusso a lungo su quelle che possono essere state le motivazioni e le cause della nascita di questo movimento confusamente politico, di ribellione al nuovo ordine piemontese percepito come estraneo. L’Abruzzo e la Marsica negli anni della proclamazione del Regno d’Italia, si trovavano in una situazione politica e sociale difficile e precaria. La cultura era appannaggio di pochi, la maggior parte della popolazione era analfabeta e dedita all’agricoltura e alla pastorizia. Se alcuni avevano riposto delle speranze nel cambiamento susseguito alla caduta borbonica, ben presto rimase deluso, ed i piemontesi invece che liberatori furono percepiti come invasori. Ci furono rivolte e sommosse nei paesi di S.Vincenzo e S.Giovanni nella Valle Roveto, Civitella Roveto, Luco dei Marsi, Tagliacozzo, Petrella, Cappadocia, Villa S.Sebastiano, Avezzano, Celano, Scurcola, Trasacco, Collarmele, Pescina e il Carseolano. In questi difficili anni il brigantaggio di divise in due tronconi, quello delle sommosse organizzate a scopo politico e quelle che avevano come scopo il furto, la rapina, e la restaurazione della dinastia Borbonica.
EROI POPOLARI O BANDITI INCALLITI?
Anche in questo periodo, come fu per quello dello Sciarra, piuttosto sottile e ben poco evidente è la linea di demarcazione che distingue il brigante-eroe popolare dal brigante bandito incallito e senza scrupoli. Molto spesso gli eserciti piemontesi si comportavano con le popolazioni locali ben peggio di quanto facessero gli stessi briganti, ai quali invece serviva il favore e l’appoggio della gente locale, dell’ambiente nel quale si muovevano e agivano.
Numerosissime sono le azioni “brigantesche” di questi anni. Memorabili le scorribande della banda Borjes, il cui capo era Borjes Dom José della Catalogna (Spagna), venuto in Italia per combattere a favore della causa borbonica. Dopo una lunga serie di azioni, nel mentre la banda si accingeva a raggiungere lo Stato Pontificio (4), e percorreva la strada da Paterno a Scurcola Marsicana, sopraggiunse, nella mattina dell’8 dicembre 1861, il battaglione bersaglieri comandato dal maggiore Franchini. La battaglia fu violenta, Borjes fu colpito a morte dal Franchini, e gli altri briganti della banda furono catturati e fucilati nella piazza di Tagliacozzo. Altro famoso capo-brigante fu Luigi Alonzi, detto Chiavone, originario del sorano. Compì la maggior parte delle sue azioni nella Valle Roveto; autoproclamatosi Generale delle armate di Francesco II, compì numerose rapine ed angherie, e non vi è notizia certa della sua fine (5). Il brigante Domenico Cajone di S.Demetrio dei Vestini, ex bersagliere, aderì invece alla banda Mancini, e fu fucilato in Luco dei Marsi il 6 aprile del 1862, insieme al brigante Luigi Ciavarella di Scurcola Marsicana. Altro capo molto noto fu Domenico Coja, forse originario di Pescina. Fu soldato borbonico, e venne arrestato in Roma in un osteria frequentata da briganti marsicani. Di lui si persero le tracce. Ci furono persino parecchi sacerdoti briganti nelle nostre terre, come Don Antonio Cesta, sacerdote di Collelongo, che fece parte della banda di Vincenzo Matteo e fu consigliere e aiutante del capobanda Chiavone. Provocò diversi disordini, e una volta scoperto si rifugiò in meditazione presso il convento dei Cappuccini di Luco dei Marsi, ma non sfuggì all’arresto. Altri briganti prelati furono il frate cappuccino De Filippi di Collelongo, Don Corretti Arciprete di Tagliacozzo, il frate Bonaventura di Balsorano, il parroco di Civitella Roveto, e molti altri ancora. E la lista dei briganti che operarono nella Marsica continua con Antonio Maccarone, che operò soprattutto dalle parti di Secinaro, e fu particolarmente noto per il suo odio per i baffi alla piemontese (6). Nel corso delle sue scorrerie, quando incontrava qualcuno che osava sfoggiare un bel paio di baffi alla Vittorio Emanuele, non esitava a torturarlo, strappandoglieli. Quando fu catturato, prima di essere fucilato il 19 aprile 1862 a Sessa Aurunca (Caserta), gli furono strappati barba e baffi pelo per pelo. Ancora per diversi anni dopo la sua morte, nei territori dove operò, a coloro che portavano i baffi veniva detto per scherzo: “attento che arriva Maccarone!”. Altre fucilazioni di briganti si ebbero a Castellafiume, dove il 6 novembre 1862 vennero giustiziati alcuni componenti della banda Pastore (7) e a Cappadocia, dove il 18 agosto 1861 vennero fucilati il brigante cappadociano Antonio Coletti e quello di Pietrasecca Domenico Spacconi. Famoso fu pure il brigante Viola, originario del Cicolano, che firmava le sue azioni con una viola e un santino di S.Berardo (8), e di cui si ignora la fine (9). E possiamo concludere con Giacomo Giorgi, brigante di Tagliacozzo, autore di diversi assalti e scorrerie. Con la sua banda, partendo dai monti di Filettino e passando attraverso la Valle del Liri, invase Luco dei Marsi, e poi assaltò Cese, frazione di Avezzano. Nel corso di questo assalto rimase però ucciso uno dei capi briganti, colpito da una fucilata sparata dal parroco di questo paese, che costrinse i malviventi alla fuga. Giacomo Giorgi morirà nel 1877 nel penitenziario dell’Isola d’Elba, dove scontava una condanna a venti anni di lavori forzati. Ed è ancora lunghissima la lista con altre fucilazioni a Pereto, Oricola, Capistrello, Avezzano, Luco dei Marsi, ecc..
CONCLUSIONI
Insomma, il brigantaggio nelle nostre terre fu un fenomeno esteso e radicato, segno di una sofferenza profonda delle nostre genti. Questo venne alla fine debellato, e spesso finirono per essere coinvolte nella repressione persone che non avevano nulla a che fare con i banditi. La storia d’Italia è passata anche attraverso avvenimenti cruenti e dolorosi, come questi relativi alla vera e propria guerra o guerriglia che si è combattuta nella Marsica tra l’esercito del Regno d’Italia e quei contadini, pastori, delinquenti comuni, ex soldati borbonici e renitenti alla leva che sono passati alla storia come i briganti.
Avit’paura de li brigant’ alla mundagne, ma nu’jurne, dapuò, vui li portiss’li sordi allj br’gant sedut’ alla seggie (detto abruzzese) (10)
NOTE:
(1) Succeduto a Sisto V, e sul soglio pontificio per appena 12 giorni.
(2) Conosciuto anche con l’appellativo “Re di Campagna”, per le sue numerose imprese nel territorio pontificio.
(3) Alcuni anni fa alcuni artisti hanno dedicato un monumento in bronzo a questa gatta che salvò Cerreto Laziale.
(4) Lo Stato Pontificio forniva spesso appoggio logistico alle bande di briganti, chiaramente in funzione antipiemonetese.
(5) Sembra che morì nel corso di uno scontro a fuoco contro i militi regi nei pressi di Villavallelonga.
(6) All’epoca venivano portati dai liberali.
(7) Della banda Pastore facevano parte alcuni briganti di Pagliara dei Marsi. A Castellafiume il 6 novembre 1862 fu giustiziato lo stesso capobanda, Luca Pastore, soprannominato “il terrore della Majella”.
(8) Allegorie del suo nome, Berardo Viola.
(9) Le ultime notizie certe lo vogliono rinchiuso a Palermo nel 1870 all’interno di un carcere pontificio.
(10) Avete ora paura dei briganti alla macchia, che vi vengono a prendere i soldi, ma un giorno, poi, i soldi li dovrete portare al suo domicilio dove vi aspetterà, seduto alla sedia.
BIBLIOGRAFIA:
Paola Staccioli, I briganti della campagna romana,1966.
Luigi Torres, Tre carabinieri a caccia di briganti nell’Abruzzo postunitario (1860/1870), Adelmo Polla editore.
C. Stecchetti, Storie di briganti nel meridione d’Italia, Adelmo Polla editore.
Ezio Del Grosso, Pagliara Dei Marsi dalle origini ai giorni nostri.
I testi degli articoli di Diocleziano Giardini e Luigi Braccili contenuti all’interno del sito internet: www.terremarsicane.it
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