DALLA
CAMPAGNA ROMANA A CAPPADOCIA
I greggi di ovini,
composti da circa 1500 capi, arrivavano sui nostri monti ricoperti da verdi
pascoli verso i primi giorni di giugno, quando le campagne del Lazio bruciavano
per la siccità; ad ogni padrone, il Comune di Cappadocia (AQ) assegnava un
lotto su cui pascolare: chi andava a Morbano, chi a Vallevona, chi a
Campolungo, chi alla Dogana; quest’ultimo era quello assegnato a mio padre
responsabile di un gregge di circa 1500 ovini che proveniva dalla Tenuta Acqua
Acetosa in via Laurentina km 9 a Roma. Anche gli altri provenivano quasi tutti
dalle campagne laziali, ed ogni estate tutti questi animali si mettevano in
movimento. Agli inizi del Novecento, il tragitto veniva fatto a piedi e durava
circa tre giorni; i pastori con i loro greggi, attraversando valli, tratturi e
montagne, dopo un viaggio massacrante sia per gli animali che per gli uomini,
raggiungevano la pace delle nostre bellissime montagne.
Negli anni che
seguirono, i trasferimenti venivano fatti metà con il treno fino alla stazione
di Oricola - Pereto (Carsoli), metà a piedi, risalendo le montagne di Pereto
che confinano con quelle di Cappadocia; Ai nostri giorni vengono fatti con
autotreni, adattati al trasporto degli ovini, viaggi molto più comodi, se si
eccettua una certa fatica per far entrare le pecore nelle gabbie di ferro,
montate sui camion. Quando si avvicinava la data della partenza, qualche giorno
prima, alcuni addetti portavano le masserizie sul lotto loro assegnato, e dopo
aver scelto il luogo dove fare lo stazzo, si affannavano a far subito le
mandre (1), in modo che appena i greggi arrivavano, potessero trovare
pronti i propri recinti per la notte: dopo le mandre, altro recinto da
fare subito era j’avato (2), recinto fatto come gli altri con le
reti, però a forma d’imbuto, con tanti posti quanti erano i pastori addetti
alla mungitura; Un altro compito di questi addetti era anche quello di
preparare i capanni dove far dormire i pastori, uno per ognuno; venivano fatti
con aste di faggio fresco: si piantavano per terra una vicina all’altra, poi si
piegavano a forma d’arco e si legavano fra loro, quindi altre aste si
incrociavano in senso orizzontale, si legavano anch’esse, e lo scheletro del
capanno era bello e fatto. Si procedeva poi a fare la base a quindici cm da
terra, sempre con paletti di legno, due della lunghezza del capanno più grandi
messi in senso orizzontale, gli altri poggiati sopra di traverso, posti tutti
alle stessa distanza e legati, cosi che anche la rete era pronta; si pensi alle
toghe di oggi giorno… un certo quantitativo di foglie di faggio verdi
diventavano il materasso, una piccola porticina fatta nello stesso modo a forma
d’arco veniva posta alla fine del capanno, una buona copertura con un telo
impermeabile e il letto era pronto e profumava di foglie verdi di faggio!!
Dentro un capanno come questo, penso di aver fatto i più bei sonni della vita
mia! Anche per le galline, in tutto una ventina, gallo compreso, ne veniva
costruito uno. Voi non immaginate che divoratrici di grilli sono le galline e
quante migliaia e migliaia di grilli vivono sulle nostre montagne; oltre le
pecore e tre cani pastori abruzzesi, la masseria era costituita da un mulo
usato come cavalcatura e due asini usati per il trasporto di formaggio, ricotta
e legna. La capanna era più grande e di solito rimaneva intatta anche per l’anno
successivo e bastava qualche riparazione per rimetterla in sesto.
IO, ULTIMO CASCIAREGLIO
Nella capanna c’erano
due rapazzole (4) per qualsiasi evenienza, vi si mettevano le
provviste, ci s’intratteneva vicino al fuoco la sera, vi si preparava la cena e
la colazione e vi si faceva il formaggio e la ricotta, però solo in caso di
pioggia. Un' altra cosa da costruire subito era il cosiddetto copellaro,
non era altro che una specie di tettoia ricoperta sempre da foglie di faggio
per fare ombra, sotto il quale si trovavano due aste parallele di faggio e
sopra le quali poggiavano di solito quattro copelle (5) che
contenevano circa 25 litri di acqua per ognuna, ed era compito de jo casciaréglio
andare al fontanile tutti i giorni con gli asini, e riempirle d’acqua. Altro
compito de jo casciarejo era trasportare tutti i giorni formaggio
fresco e ricotta dallo stazzo a Cappadocia, per venderli poi subito ai
villeggianti e agli abitanti del luogo; il viaggio durava circa un’ora e mezzo
e spesso ci si incontrava con gli altri casciareji che provenivano da
sentieri e pascoli diversi, e si percorreva insieme l’ultimo tratto di strada
che portava fino al paese. Appena giunto al paese, jo casciaréglio scaricava
il formaggio nella cantina, portava le bestie nella stalla e gli dava il fieno.
Il suo compito però non finiva lì; faceva subito la spesa che i pastori gli
avevano ordinato e poi fino all’ora di pranzo era libero. Dopo pranzo tirava
fuori gli animali dalla stalla, caricava sopra gli asini la spesa che aveva fatto
e si rimetteva in cammino verso lo stazzo da dove era venuto, insieme a qualche
compagno al quale aveva dato appuntamento; questo viavai su e giù per la
montagna era il suo compito e durava per tutta l’estate. Quante volte sulla
strada del ritorno, lampi, tuoni e piogge torrenziali mi accompagnavano fino
allo stazzo!! Dove, tutto fradicio, entravo nella capanna e accendevo subito il
fuoco per asciugarmi i vestiti.
Se penso che oggi,
ogni lotto ha il suo rifugio in cemento, fatto di due camere e un grande
camino, che si può raggiungere anche con le autovetture, mi prende una certa
rabbia, perché ripenso a tutti i viaggi fatti percorrendo quei viottoli
mulattieri!!
Verso le dieci del
mattino, prima non era possibile perché le fundicelle (6) erano sempre ricoperte
di nebbia, i pastori abbassavano le reti e portavano al pascolo i greggi; si
dirigevano, per abbeverarli, verso i due fontanili appartenenti al nostro
lotto; uno, il più grande, Fonte San Nicola, la cui acqua sgorga gelida dalla
roccia e penso che sia l’acqua più buona di tutte le nostre montagne; il
secondo, la Fonte della Spina (7), più piccola ma più vicina, rimaneva
sul lato opposto, solo che in estate quando pioveva poco, l’acqua che usciva
era talmente poca che per riempire 4 copelle ci voleva quasi un’ ora.
Ogni dieci giorni le
pecore, verso sera prima di rientrare, venivano fatte passare alle salere
(8). Ricordo di una lepre che tutte le sere andava anche lei a leccare il sale
alle salere.
La sera, quando i
pastori ritornavano dal pascolo, mettevano le pecore nei recinti e poi si
recavano a j’ avato per la mungitura; seduti sulle loro banchette
(9) con il secchio per il latte ben serrato tra le ginocchia, aspettavano che
le pecore, spinte da jo biscino (10) s’incanalassero nelle bocchette, per
poi bloccarle, ponendo sul loro collo j’ancino (11) legato ad un
paletto.
Finita la mungitura jo
casciere (12) versava il latte che ogni pastore aveva nel proprio
secchio in una grande caldaia facendolo passare attraverso la cola
(13) per filtrarlo, liberandolo così da ogni sorta di sporcizia. Poi fatto
scaldare il latte alla temperatura giusta, 35/38 °C, toglieva la caldaia dal
fuoco, vi versava dentro il caglio naturale (14) dopo aver mescolato un po’, e
quindi aspettava la cagliata 20/25 minuti circa; dopo rimetteva la caldaia sul
fuoco e mescolando co jo rompituro (15)
rompeva la cagliata e
la portava ad una temperatura di cottura di 40/42 °C, per circa 10/15 minuti,
fino a quando il formaggio non assumeva la consistenza di chicchi di granturco;
quindi tolta la caldaia dal fuoco, il formaggio veniva fatto depositare sul
fondo della caldaia e pressato con le mani, poi segato con un filo e depositato
in apposite forme (16), dove veniva pigiato con le mani per essere spurgato dal
siero.
Il siero di latte,
avanzato dalla lavorazione del formaggio, veniva invece utilizzato per fare la
ricotta. Messo di nuovo sul fuoco e mescolandolo in continuazione, veniva
portato ad una temperatura di circa 80/85 °C. Dopo circa 45 minuti, la ricotta
saliva in superficie e raccolta con la schiumarola, veniva messa in apposite fuscelle
di giunco e fatta scolare; Spesso i pastori, quando non avevano voglia di
cucinare, per far colazione prendevano una scodella e vi versavano dentro siero
e ricotta calda e dopo avervi messo del pane, si preparavano una ricca
colazione detta mpanata. Al termine di tutta la
lavorazione casearia, i pastori ormai liberi da ogni incombenza, potevano
dedicarsi ognuno alle proprie attività personali.
Al mattino presto,
dopo la mungitura, si ripetevano tutte le attività della sera; ed io, casciaréglio,
dopo aver sistemato nelle ceste, formette e ricotte, montavo sulla mia mula e
mi mettevo in viaggio alla volta del paese, con gli asini che camminavano
davanti a me con il loro prezioso carico…...
Ai primi di agosto
tutte le attività casearie venivano a cessare per permettere alle pecore, già
al terzo mese di gravidanza, di potersi preparare per il nuovo ciclo
riproduttivo che si sarebbe compiuto appena tornate nelle campagne del Lazio,
da dove erano venute…
Settembre è arrivato,
è tempo di migrare. La transumanza ha inizio…oggi dopo tanto tempo, torno con
la mente a quei tempi, alle lunghe giornate al seguito delle greggi. Lo faccio
recitando a mente la lirica di D’Annunzio…
I pastori
Settembre andiamo. E’ tempo di
migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei
pastori
Lascian gli stazzi e vanno verso
il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei
monti
Han bevuto profondamente ai fonti
Alpestri, che sapor d’acqua natìa
Rimanga ne’ cuori esuli a
conforto.
Che lungo illuda la lor sete in
via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al
piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi
padri.
O voce di colui che primamente
Conosce il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral cammina
La greggia. Senza mutamento è
l’aria
Il sole imbiondì sì la viva lana
Che quasi dalla sabbia non
divaria.
Isciacquio, calpestìo, dolci
romori.
Ah perché non son io co’ miei
pastori?
(1): recinti, di
solito a forma quadrata, con reti di canapa e bastoni di legno ben piantati
(2): il mungitoio
(3): così veniva
chiamato il ragazzo addetto ai piccoli servizi dello stazzo
(4): posti letto
(5): piccole
botticelle fatte di legno
(6): così era
chiamata la zona dove era situato lo stazzo
(7): detta così
perché l’acqua nasce sotto una pianta di uva spina
(8): non erano altro
che grosse pietre lisce sopra le quali veniva versato il sale, perché l’ erba
della montagna è insipida e quindi agli animali viene dato del sale come
integratore
(9): di legno a forma
di mezzaluna con tre piedi
(10): colui che
toccava a j’avato, la mungitura
(11): legno ricurvo a
forma di V
(12): il casaro,
colui che fa il formaggi
(13): tela di canapa
(14): estratto dallo
stomaco dell’agnello ancora lattante, veniva messo ad essiccare all’aria, poi
triturato e reso granuloso, veniva conservato con olio e sale in un barattolo
(15): bastone di
legno di spino con varie ramificazioni sulla punta
(16): cassi di legno
di faggio
NOTE:
Il
contenuto di questo articolo si basa sulla mia esperienza diretta di casciaréglio,
mestiere che ho svolto unitamente a quello di pastore insieme a mio padre,
negli anni Sessanta.
Desidero
ringraziare il Dott. Alessandro Fiorillo, ricercatore storico e webmaster del
sito internet del paese di Cappadocia, con il quale collaboro allo sviluppo e
la crescita del suddetto spazio web e alla raccolta delle tradizioni storiche
locali.
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