domenica 2 agosto 2015

I mulattieri, di Bruno Tocci


Le origini di questo mestiere sono molto antiche. L’inizio della diffusione del mestiere a Cappadocia si può far risalire alla seconda metà del 1800, nel periodo immediatamente successivo all’unità d’Italia, quando sembra che i primi mulattieri del paese siano stati impiegati per il trasporto del materiale per la  costruzione della ferrovia Roma-Pescara (1889).
La maggior parte dei mulattieri nel paese è, tuttavia, nata agli inizi del 1900. Questo lo desumo dal fatto che mio nonno paterno, nato nel 1865, mulattiere negli anni della Prima Guerra Mondiale insieme a molti altri della sua generazione, nei primi anni del Novecento faceva ancora il capraio.
Mio padre, classe 1905, raccontava di essere nato a Roma in quanto, durante il periodo invernale, i caprai si recavano nella capitale dove vendevano il latte di capra ai residenti, mungendolo direttamente nei recipienti dei clienti. Gli uomini svolgevano questo lavoro a Piazza del Popolo e le donne a Piazza Montanara, una piazza, non più esistente,  vicino al teatro Marcello. In questa piazza si teneva un vivace mercato frequentato prevalentemente da contadini della campagna laziale, oltre che da abruzzesi e marchigiani. Questa attività è poi completamente sparita.
A maggior conforto di questa ipotesi aggiungo che mia madre, nata nel 1908, apparteneva ad una famiglia di pastori successivamente riconvertita al mestiere di mulattiere: i suoi fratelli minori, ricordava, avevano sempre fatto i mulattieri.
Considerando, infine, che i Cappadociani sono abbastanza omogenei nelle loro scelte e per il fatto che comune era la situazione sociale ed economica del paese e ben poche le fonti di reddito, penso che il mestiere si sia affermato, in maniera consistente, proprio ai primi del novecento.
Risulta che questa attività si sia originata e differenziata in due diversi filoni: quello dei mulattieri “salamitrari” e quello dei “cavallari”.
I salamitrari trasportavano il salnitro a dorso di asini e muli, i cavallari usavano il cavallo per la trebbiatura del grano.
I cavallari si consideravano appartenenti al ramo più nobile del mestiere e, nei discorsi tra ex mulattieri, trattavano con una certa alterigia gli altri mulattieri.


LA ‘MMASCIATA

Un mulattiere “mujaro [1], o vetturino, conduceva generalmente un gruppo di cinque muli detto in dialetto locale “ ‘mmasciata” e trasportava legna da ardere, carbone, traverse ferroviarie, fascine ed anche tini pieni d’uva nel periodo delle vendemmie.
Qualche mulattiere ha lavorato anche per il trasporto di materiale per la costruzione di tralicci elettrici in zone impervie, e qualcun altro trasportava materiale per le miniere.
La maggior parte delle attività erano comunque legate ad esigenze di trasporto a carattere stagionale e i mulattieri si trasferivano spesso nelle zone dove era richiesto il loro lavoro, assumendo così caratteristiche quasi nomadi.
Un esempio di quanto detto era il lavoro di trasporto del legname abbattuto durante i periodici tagli dei boschi nel territorio circostante o, talvolta, in altre regioni d’Italia (Toscana).
L’arrivo del mulattiere, nel bosco da smacchiare era preceduto dal taglialegna.


IL TAGLIALEGNA

I  taglialegna, “tagghiaturi”, erano i primi ad operare, e quando avevano tagliato una certa quantità di metri cubi entravano in azione i mulattieri. I taglialegna arrivavano in gruppi di soli uomini ed, in genere, alloggiavano in capanne nei pressi del bosco da tagliare.
Nel loro lavoro usavano l’accetta ed il segone per abbattere l’albero e tagliare i pezzi più grossi, la roncola o pennato per i rami piccoli. Noi in genere avevamo a che fare con squadre di taglialegna casentinesi di Badia Prataglia. Mentre  tagliavano, ogni piccolo inconveniente era accompagnato da  una bestemmia  composta generalmente da due vocaboli, il primo dei quali era sempre maremma o madonna ed il secondo dipendeva dalle circostanze. Ogni tanto si riposavano per fumare sigarette costruite all’istante con cartine e tabacco sfuso. Tagliata la legna, la sistemavano in cataste alte un metro e lunghe multipli di mezzo metro detti metri steri. Questo sistema era utile  per quantificare il loro lavoro,  e quello del mulattiere.
 Negli anni 60 i taglialegna al posto dell’accetta cominciarono ad utilizzare la motosega con motore a scoppio a due tempi.
Non ancora a conoscenza di questa evoluzione, e ascoltando  il caratteristico rumore di un motore a due tempi, mi chiedevo che cosa ci facesse per tutto il giorno una lambretta in pieno bosco e su strade inaccessibili. Passando un giorno vicino ad un albero che stavano abbattendo mi accorsi della novità.
Debbo dire che  non mi fece una buona impressione, perché al caratteristico profumo di legno tagliato e foglie si aggiungeva adesso anche l’acre odore dei fumi di scarico completamente estraneo all’atmosfera del bosco.
Un’altra figura professionale che operava nel bosco era il carbonaio.


IL CARBONAIO

I carbonai si costruivano delle capanne all’interno del bosco ed in genere portavano con sé l’intera famiglia che tutta insieme partecipava al lavoro. Il carbonaio era un mestiere difficile che si trasmetteva di padre in figlio. Provenivano  prevalentemente dall’Appennino toscano e Abruzzese, dalla Garfagnana da Montemignaio e dalla Ciociaria. Il carbone è un prodotto della distillazione della legna. Si ottiene facendo avvenire una combustione in carenza di ossigeno, liberando le componenti più volatili e l’acqua. Il carbone di legna ha un calore specifico di 7500 Kcal/Kg contro i 2500 Kcal/Kg della legna verde. In tempi in cui il prezzo del trasporto era consistente,  risultava molto più conveniente produrre carbone direttamente nel bosco. La cottura della legna era un’operazione molto delicata, che richiedeva grande esperienza.
“Il carbonaio comincia con il costruire “l’uovo di legna”,  alto fino a 3 metri, lo riveste in basso di zolle, sopra di uno strato di foglie secche e terriccio. Egli ha avuto cura, accatastando il legname, di lasciar nel mezzo un forno profondo una quarantina di centimetri. Viene dato fuoco di sopra; la carbonaia fuma subito. All’incirca dopo dodici ore, l’uomo comincia a praticare dei buchi, che poi tappa  o stappa, a seconda di come spira il vento al fine di assicurare un tiraggio uniforme.
La cottura dura tre giorni; se è stata fatta a regola d’arte, il carbone acquista la tempera, cioè reagisce con l’umido sputando ragia bianca.” [2] 
Il carbone buono ha una colorazione nera con riflessi azzurri e spezzandolo  presenta una rottura netta e non si sfarina. Il carbone più pregiato è quello ottenuto con legni forti quali leccio, quercia e cerro. Finito il processo di cottura si  lasciava raffreddare la carbonaia, possibilmente annaffiandola, e successivamente  il carbonaio provvedeva ad insaccare il carbone in appositi sacchi di canapa ed aiutava il mulattiere a caricarli sui muli, 2 per soma.
Questo mestiere, per effetto della riduzione dei costi di trasporto e del minor consumo, è quasi sparito ed il carbone, attualmente in commercio,  si produce in stabilimento con processi industriali automaticizzati oppure viene importato dai paesi dell’Europa dell’est.
C’erano poi i fascettari che confezionavano le fascine permettendo ai mulattieri di trasportarle, ed infine c’era il  guardaimposto che provvedeva ad accatastare la legna nell’imposto ottimizzando gli spazi e facilitando il carico degli autocarri. Nei ritagli di tempo provvedeva a risistemare i sentieri per agevolare il lavoro del vetturino.


LA VITA DEL MULATTIERE
 
Il mulattiere cappadociano, “mujaro”, nel periodo autunno-inverno-primavera lavorava prevalentemente nella campagna laziale trasportando legna da ardere e carbone, ed in alcune zone,  come ad esempio Civita Castellana, anche fascine che servivano ad alimentare i forni per la cottura delle ceramiche. Alloggiava generalmente in abitazioni di fortuna che qualche volta erano costituite dalle case dei contadini, altre volte da cantine e, quando non si trovava altro, da capanne o persino in grotte. Quando andava bene, alloggiava nelle case del paese più vicino. Durante la stagione invernale le condizioni ambientali erano particolarmente gravose. A questo proposito c’è un proverbio che dice “se vuoi patire le pene dell’inferno fai il cuoco d’estate ed il mulattiere d’inverno”.
I mulattieri, in genere, nel loro itinerare portavano con sé tutta la famiglia e spesso, quando il bosco da smacchiare era particolarmente esteso e prevedeva l’impiego di parecchie “ ‘mmasciate”, si costituivano dei veri e propri accampamenti, con le diverse famiglie sistemate in capanne tra loro vicine.
Il maggior concentramento, a sentire i racconti dei miei genitori, è stato quello del 1943/44 a Capocotta, residenza allora dei Savoia.
La realizzazione della capanna era affidata ai taglialegna, in quanto i mujari manifestavano poca manualità,  “ le tenevano stocche [3]. Per costruire la capanna si faceva un’armatura di rami, le pareti laterali, leggermente inclinate, si rivestivano di zolle con la parte erbosa rivolta verso l’interno. Sul tetto spiovente, a due falde, veniva stesa la carta incatramata ricoperta di rami, sassi e ginestre per proteggerla dal vento e non farla strappare. Veniva infine realizzata una porta di accesso fatta di rami e foglie.
Nella capanna, il letto era costituito dalla rapazzola, che consisteva in un sacco imbottito di foglie sistemato su un telaio in legno e frasche, poggiato direttamente sul terreno. Succedeva che, dopo un pò di tempo, il tetto della capanna, impermeabilizzato con carta incatramata, per effetto del vento cominciava a perdere la sua funzione e nelle giornate piovose bisognava provvedere a piccole riparazioni o a porre un recipiente in corrispondenza della perdita. Risolti questi piccoli problemi, il mulattiere poteva riposare tranquillamente “...ci si parato addù piove!” [4]. In queste abitazioni primordiali non si era mai soli, si riceveva spesso la visita di lucertole, topi, bisce ed altro. Al centro della capanna si accendeva il fuoco che serviva ad illuminare, riscaldare e cucinare. Sul tetto, in corrispondenza del fuoco era ricavato, in genere, un piccolo camino per smaltire un po’ di fumo, il resto invadeva l’intera capanna. Gli utensili per la cucina si limitavano a: un paiolo di rame, “jo callaro”, che serviva per cuocere la pasta, qualche padella, qualche tegame di coccio per cucinare i fagioli o il sugo, qualche bicchiere ed alcune posate di alluminio ed un ferro da stiro che si scaldava ponendolo accanto al fuoco. I tempi di cottura erano molto lunghi e conferivano al cibo un sapore ed una consistenza particolare. Mi ricordo che quando ci siamo trasferiti a Roma, per cucinare, anziché la legna si usava il gas, con tempi di cottura molto più limitati e mia madre che non si era ancora adeguata,  spesso, affaccendata in altre operazioni, si dimenticava del tegame mandando in fumo il pasto e per giustificarsi diceva “mamma se che è jo gas” ed i vicini di casa esclamavano “ariecco er fumo de la sora Lucia.”. Per l’illuminazione, oltre alla luce del fuoco, si usava la candela oppure la lampada ad acetilene detta in dialetto scindilena, un piccolo gasogeno che produceva gas acetilene partendo da carburo di calcio ed acqua. Il gas, tramite opportuno rubinetto, usciva da un ugello “beccuccio” che reagendo con l’aria circostante produceva una fiamma a forma di dardo molto luminosa, energica e calda (2200 °C) che difficilmente si spegneva se esposta al vento. Ogni giorno bisognava fare la ricarica dell’acqua e del carburo, e a me piaceva molto l’odore caratteristico del carburo bagnato. Per i bisogni fisiologici si “scendeva in campo…”,  per l’acqua si usavano delle copelle riempite nella sorgente più vicina. Per lavare i panni si andava nel fontanile oppure nel corso d’acqua più vicino. Si faceva la spesa ogni quindici giorni, e si acquistavano cibi a lunga conservazione quali aringa affumicata, baccalà, prosciutto, pancetta, conserva di pomodoro, insaccati, formaggio, farina, pasta e così via. Il pane nelle cassiette si conservava per un po’ di tempo ma dopo alcuni giorni per non sprecarlo, si era costretti a fare l’acqua cotta, la panzanella ed altre cose del genere. Per la carne ci si alimentava, qualche volta, con conigli e polli acquistati dai contadini e spesso il mulattiere portava con sé anche un po’ di galline per avere uova fresche e carne di pollo a disposizione. Un pasto tipico era la panuntella, con pancetta e salsicce.
Spesso il mulattiere, specialmente nei periodi estivi, non portava con sé la famiglia e pertanto oltre al lavoro doveva sbrigare anche tutte le altre faccende domestiche: cucinare, lavare gli indumenti ed altro. Doveva essere autosufficiente per lunghi periodi.
Il mulattiere indossava generalmente un paio di pantaloni di “pelle di diavolo” con le tasche molto profonde per evitare di perdere il contenuto che era costituito da un fazzoletto e da un coltello utile per mangiare e per tagliare corde o cavezze in caso di emergenza. Una camicia robusta con delle ampie tasche veniva portata sopra i pantaloni e legata con un nodo. Sopra la camicia veniva indossato un giubbotto azzurro cucito in genere dalla moglie.
Calzava scarponi pesanti di cuoio con le suole rinforzate da bollette e rampini. Qualcuno si proteggeva la testa con  il cappello, altri con un fazzoletto annodato. I mulattieri più anziani al posto della cintura usavano la fascia lunga 5 o 6 metri che avvolta con diversi giri al dorso oltre che tenere i pantaloni proteggeva anche la vita.
Il mulattiere portava sempre un bucco che usava come contenitore per il pranzo e per metterci la roncola indispensabile per il lavoro.
Talvolta, durante la stessa stagione, quando il lavoro non era abbastanza consistente, era necessario spostarsi in posti limitrofi. I traslochi erano abbastanza rapidi perché tutto il corredo di una famiglia di mulattieri era contenuto in poche casse in legno dette cassiette costruite da falegnami di Cappadocia, noi in genere ci fornivamo da Minicuccella. C’era la cassietta degli alimenti, quella dei vestiti e quella degli attrezzi e se la famiglia era numerosa venivano diversificate per persona. Queste cassiette oltre che fungere da contenitori, venivano usate spesso come sedie e tavoli. In gergo Cappadociano di un uomo che presenta una schiena particolarmente arcuata si dice che possiede una bella cassietta. Per traslocare bastava caricare due casse per mulo, i sacchi di biada, eventuali gabbie delle galline e qualcos’altro e mettersi in movimento. Appena si arrivava nel nuovo sito, dove già preventivamente si era provveduto a reperire l’alloggio, si provvedeva a scaricare quei pochi bagagli ed a riempire i pagliericci di paglia o foglie per poter dormire, ed a trovare una sistemazione per i muli; a Civita Castellana ci accoglievano dicendo “arrivano i Tocci con i fagotti”. Il giorno dopo gli uomini ricominciavano il lavoro, ed i bambini in età scolastica venivano accompagnati dalla madre nella nuova classe che nella maggior parte dei casi era una pluriclasse a diversi chilometri di distanza dall’abitazione. Si cambiava scuola tre o quattro volte l’anno, dimostrando grande spirito di adattamento e notevole velocità di inserimento vincendo subito le avversità iniziali. Mio fratello Michele, nel primo giorno di scuola a S.Oreste fu accolto da un dettato proposto dal maestro: “Oggi è arrivato, nella scuola elementare di S.Oreste, un nuovo alunno di un paese lontano, con le scarpe di pezza e le toppe ai pantaloni…”.
In famiglia ci si esprimeva in dialetto, con gli abitanti del posto si cercava, per quanto possibile, di usare l’italiano, anzi si facevano “le parlatine” che era un misto tra italiano e dialetto nobilitato. Ad esempio si può constatare che diverse parole dialettali cappadociane diventano vocaboli della lingua italiana convertendo una ‘i’ con una ‘e’ così con questa regola “sicchio” si italianizza in secchio, “tigame” in tegame e così via. Usando questa regola, mio fratello “Bocalone” mentre si trovava in classe, in una giornata invernale con il fuoco acceso, chiese all’insegnante “signora maestra, potrei spostare quel tezzone?” e la maestra  rispose “ma come parli? Non si dice tezzone si dice tizzone”,   era stato sfortunato, tizzone faceva eccezione. 
I muli in inverno venivano alloggiati nelle stalle o, dove era possibile, in appezzamenti di terreno ben delimitati, onde evitare fughe ed altri inconvenienti. Quando i muli venivano alloggiati nelle stalle bisognava controllarli periodicamente durante la notte, “stramare” per alimentarli ed evitare possibili inconvenienti. Ogni giorno il mulattiere si alzava molto presto, e verso le 3 o le 4 del mattino prendeva le bestie, metteva loro il basto, e le nutriva con una razione di biada contenuta in contenitori detti bucchi, appesi al muso del mulo a mò di museruola e nel frattempo anche lui faceva colazione con una sostanziosa panuntella.
A questo punto cominciava il suo lavoro, che consisteva nel trasportare il carico dal posto di origine fino al deposito “imposto”, che generalmente era situato in uno slargo, vicino ad una strada carrabile, dove poteva arrivare un camion per trasportare la merce verso altre destinazioni. Il carico di ogni bestia era circa di due quintali, ed una volta scaricata la soma nell’imposto, si riavvolgevano le corde che erano servite per legarla e si raggruppavano i muli per “ ‘mmasciata”,  legandoli tra di loro in fila indiana. Il mulattiere si riavviava verso il bosco per continuare il lavoro cavalcando il primo mulo della fila. Questo percorso “viaio” era ripetuto più volte al giorno, a seconda della distanza, fino al calar del sole.  Durante la giornata, all’ora di pranzo, veniva effettuata una sosta per permettere il pasto ai muli ed ai loro conducenti.
Al termine della giornata lavorativa, si riportavano i muli nei loro alloggi e si provvedeva a dar loro l’ultimo pasto della giornata. Si toglieva quindi il basto e, sentendosi liberi, i muli si rotolavano in terra, “ucicavano”, anche per togliersi il prurito dovuto a qualche piccola ferita. In ultimo, il mulattiere, si dedicava ad eventuali operazioni accessorie, quali riparazione di basti e corde e, se necessario, alla ferratura.


LA FERRATURA
 
La ferratura del mulo veniva fatta direttamente dal vetturino, a freddo, usando ferri già a disposizione. Si era sempre in possesso di un corredo di ferri, acquistati presso i fabbri di Tagliacozzo, delle misure corrispondenti ai propri muli. Noi ci rifornivamo da Tomassino. Veniva prima tolto, con le tenaglie, quel che rimaneva del ferro vecchio, quindi spianato lo zoccolo con un attrezzo che chiamavano incastro, una specie di scalpello ben affilato con il manico a cazzuola,  si tagliava le unghie eccedenti spianando la superficie ed infine si rifiniva con una raspa. Quindi si applicava il ferro nuovo, che veniva inchiodato con la dovuta precauzione e precisione per evitare che i chiodi, oltrepassando lo strato d'unghia, andassero a ledere la parte viva dello zoccolo. Si tagliava infine la parte eccedente del chiodo, ribattendone una parte sulla superficie laterale dello zoccolo, in modo che non si potesse sfilare. Durante questa operazione un mulattiere provvedeva a reggere la zoccolo, ed un altro a ferrare, e talvolta, non avendo un compagno a disposizione, provvedeva da solo sia a tenere lo zoccolo che a ferrare.
Per il trasporto della soma è indispensabile il basto, ‘masto.


IL BASTO (JO ‘MASTO)

A Cappadocia c’erano diversi artigiani che producevano basti, uno stava a piazza S.Sebastiano all’inizio di via dell’Assemblea, un altro al piazzale di fronte al municipio e un altro ancora al colle dove lavoravano bastai di Sante Marie. Il basto era composto da una armatura portante in legno di faggio così costituita: due travi curve ad U, poste a distanza di circa 30 cm l’una dall’altra, detti arcioni, il primo ad arco acuto, il secondo più arrotondato, in modo da seguire la sagoma del dorso del mulo, collegati tra di loro da due tavolette sempre in legno di faggio leggermente curvate per seguire la sagoma degli arcioni. Gli arcioni erano ricavati da alberi di faggio particolarmente contorti che normalmente crescono sui crinali dei monti. Crescono storti in questa maniera per effetto del vento. Ogni arcione, per completare la sua lunghezza, aveva da ambo i lati un’appendice  denominata pennecchia inchiodata all’arcione principale. Questo termine, per somiglianza, viene tutt’ora usato per indicare un naso particolarmente pronunciato, “che bella pennecchia!”. Sugli arcioni erano ricavati dei fori per l’ancoraggio di corde e catene, necessarie per legare la soma. Nella parte convessa di questa armatura, era poi ancorata tutta l’imbottitura in paglia e crine che serviva ad adagiare  e distribuire il peso della soma sul dorso del mulo. Il basto era corredato da una cinghia e degli straccali che servivano a renderlo solidale alla bestia, e a non farlo scendere in salita o in discesa. Come detto in precedenza, il basto era corredato da corde, due per parte dette jacquoi, per legare le due mezze some, e da una corda più lunga detta susta per sostenere ulteriormente l’intera soma. Queste corde, negli anni 60, furono sostituite da elementi in pelle di bufalo che assicuravano maggiore resistenza, minore manutenzione e migliore maneggevolezza specialmente in caso di pioggia quando le funi in canapa si irrigidivano e la legatura era difficoltosa.


LA SOMA

Per caricare la soma di legna sul basto del mulo, era necessario aiutarsi con una verga in legno,  detta  carecatora,  lunga un paio di metri che, nella parte finale, aveva uno o più appigli costituiti da rami tagliati. La base della carecatora si puntava nel terreno, in posizione leggermente inclinata rispetto alla verticale, ed uno degli appigli andava ad agganciare una corda legata alla parte inferiore del basto ed a questo punto si  caricava la mezza soma che alla fine veniva legata dai due jacquoi, si procedeva quindi in maniera analoga al caricamento dell’altra mezza soma. Al termine, svincolando le due caricatore dal terreno, si faceva gravare l’intero peso della soma sul mulo. Si facevano fare alcuni passi al mulo, verificando che il carico fosse equilibrato, e nel caso negativo si poneva un altro pezzo di legna, di peso proporzionale allo squilibrio, sulla semisoma più leggera, che tendeva ad alzarsi,  fino a riequilibrare il carico “la soma si aggiusta strada facendo”. Per scaricare la soma all’imposto, si faceva il contrario, si slegavano prima gli jacquoi ed infine sciogliendo la susta  veniva giù l’intero carico.
I mulattieri lavoravano tutti i giorni dal lunedì mattina al mezzogiorno della domenica, anche nelle giornate piovose. Nelle giornate particolarmente avverse non si usciva con i muli, ma si approfittava per effettuare piccoli lavori di manutenzione ai basti, cavezze ed altro. Talvolta, in queste circostanze, si andava in cerca di legno di bagolaro (buzzarago) per costruire le ciammelle. Si prendevano gli alberelli piccoli dell’albero, di diametro di due o tre centimetri, si scorticavano, si mettevano poi vicino al fuoco ed ogni tanto, in maniera progressiva, gli si dava una piegata fino a fargli assumere la forma definitiva di alfa, dopodiché si bloccava la posizione con due piccoli incassi combacianti, dei chiodini e dello spago sottile trinciafio. Queste ciammelle servivano a legare la soma al basto, ed in mancanza di esse si usavano degli anelli in acciaio che però erano meno ergonomici e tendevano ad usurare maggiormente le corde. Il mulattiere curava le piccole ferite della bestia, fornendo le giuste medicazioni, per questioni più gravi chiamava il veterinario ed in casi estremi si raccomandava a S.Antonio. L’immagine di S.Antonio era sempre presente nelle stalle a protezione degli animali ed il giorno del santo si portavano le bestie a benedire.


IL MULO

Il mulo (mujo), animale ibrido, è figlio della cavalla e dell’asino. Per ovviare alle difficoltà dell'accoppiamento tra cavalla e asino, si consiglia la fecondazione artificiale, che aumenta anche la percentuale di fecondità [5]. La durata della gravidanza nella cavalla ingravidata da stallone asino è intermedia tra le due specie (11 mesi per quella cavallina, 12 mesi per la specie asinina): è cioè 1-2 settimane più lunga rispetto a quella del cavallo. Di norma la cavalla ripresenta l'estro nella prima settimana successiva al parto e potrà essere fatta rifecondare. I muli sono particolarmente vivaci prima di essere domati, e quelli particolarmente irrequieti per caricarli o ferrarli si bendano. Quando ha cattive intenzioni allinea le orecchie all’indietro, in questo caso si dice che “appizza le recchie” e come conseguenza bisogna stare in guardia da possibili morsi o calci. Questa espressione “appizzare le recchie” viene spesso usata in dialetto come metafora per identificare persone di cattivo umore.
La domatura, intesa come addestramento al lavoro, viene praticata verso i 18-24 mesi, nella stessa maniera adottata per il cavallo e l'asino.
I muli maschi prima di addestrarli al lavoro venivano castrati.
Il pieno rendimento si ha intorno a 4 anni di età. La rusticità è notevole, però il carattere è difficile, indipendente e scontroso; per questo motivo gli animali non vanno mai trattati duramente, per evitare risultati negativi e anche per l'istinto vendicativo del mulo. I muli hanno vita lunga (come l'asino): si ricordano muli che hanno prestato lavoro, anche pesante, per 15 e persino 20 anni. Per la determinazione dell'età si ricorre all'esame della dentatura che differisce assai poco da quella dell'asino.
L’altro ibrido, denominato bardotto, è figlio dell’asina e del cavallo. Fisicamente è molto simile al mulo tant’è vero che spesso i mulattieri hanno acquistato bardotti pensando che fossero muli. I mulattieri lo chiamano anche mulo somarino.
Il bardotto, come il mulo, quando in branco, tende a seguire, come capobranco, più l’asina che la cavalla e pertanto tende ad isolarsi dal branco di muli che seguono; tale comportamento mette in difficoltà i mulattieri che non riescono a ritrovare il branco compatto quando questo sia stato lasciato in libertà.
A Cappadocia ed in tutti gli altri luoghi, esiste anche l’uomo somarino, individuo poco socievole, che si separa dagli altri, mostrando un carattere tendente all’isolamento.
I muli e bardotti maschi sono considerati da quasi tutti gli studiosi sempre sterili; le femmine possono essere occasionalmente fertili. Non sono rari i casi di mule che hanno concepito e partorito soggetti vivi e vitali, asini nel caso di stallone asino e cavallo se lo stallone è stato un cavallo.
Il mulo ha testa più grossa e orecchie più lunghe del cavallo, collo corto con scarsa criniera (più abbondante nel bardotto), garrese basso, dorso spesso convesso, groppa tagliente, coda con pochi crini. Gli arti sono asciutti, con articolazioni larghe e solide, piedi cilindrici e talloni alti e stretti. Il pelo è corto. I mantelli più frequenti sono il nero e il grigio; il sauro è raro. Talvolta si ha la riga mulina; più frequenti sono le zebrature, specie quando il mantello è baio.
A primavera cambiano il pelo da lungo a corto. Il mulo è meno ricettivo del cavallo alle malattie e alle coliche; minori sono anche le esigenze di governo, di cure igieniche e di custodia. Se il mulo è proverbiale per la caparbietà e spesso per la cattiveria, in compenso compie il lavoro con grande energia e molta resistenza, anche sulle strade montane più impervie, con passo sicuro e costante andatura.
Il mulo è impiegato per il traino e per la soma. Il mulo da soma, ha per lo più taglia piccola, da m 1,30-1,40 e un peso vivo di kg 300-400. I nomi tipici dei muli erano: moro, bufalo, pastora, lupetto, navicella, marisella, soprana, mascherino, serpente, vipera, passatore, pauncella, liborio, pacioso ed altri. Tutti i muli di nome mascherino che ho visto, erano di colore bianco-grigio, chissà se era una combinazione  Noi avevamo un mulo, di nome pacioso, che era particolarmente docile ed aveva l’abitudine, nel tempo libero, di rilassarsi poggiando il sedere in terra con le zampe anteriori dritte nella posizione che assumono i cani, questa posizione lo rendeva particolarmente simpatico. Io, che ero bambino, gli passavo sotto le zampe, gli mettevo le mani in bocca gli davo schiaffi sulle guance e pizzicavo le labbra; non si è mai lamentato.


LE FIERE

I mulattieri, periodicamente, per motivi di lavoro avevano bisogno di incontrarsi tra loro e con le altre maestranze del bosco; il punto di raccolta  erano i portici di Piazza dei Cinquecento, vicino alla Stazione Termini di Roma, il giovedì mattina ed in maniera più plenaria il lunedì di Pasqua. In questa circostanza si combinavano lavori, si acquistavano o vendevano muli e si concludevano altre operazioni a corredo.
Prima della seconda guerra mondiale si incontravano presso piazza Margana, vicino a Piazza Venezia ed alloggiavano nella locanda “Angelino” che poi si è trasformata in un albergo per turisti. Vicino c’era la ferramenta Bracuglia, chiusa pochi anni fa, dove i mulattieri acquistavano chiodi per la ferratura, ferri e altro. Questo luogo forse fu scelto, perché prima degli sventramenti di inizio 900, era in vicinanza di Piazza Montanara, adiacente al teatro Marcello, dove si teneva un fiorente mercato specialmente con gente che veniva dalla campagna romana. 
Altri luoghi di incontro erano la fiera di Bracciano, il primo maggio, dove ancora oggi si recano mulattieri ed ex mulattieri nostalgici e la fiera di S. Rocco a Tagliacozzo il 16 Agosto.


LA STAGIONE ESTIVA

Finito il periodo inverno-primavera, nella stagione estiva si lavorava in quota, fino agli anni 50 nelle montagne di Cappadocia, dell’Abruzzo o al Terminillo. Si trasportava legna, carbone e traverse ferroviarie. La strada carrabile terminava a Cappadocia ed essendo i boschi situati in un ampio territorio lontano dal paese, si riusciva a fare in un giorno uno o due viaggi al massimo. L’imposto del carbone era situato di fronte ai giardinetti. Tra il 1930 e il 1950, per abbassare il costo del trasporto, furono installate due teleferiche a gravità che trasportavano tronchi, carbone e legna fino alla base. Una era gestita da una ditta piemontese, ed aveva la sua base in corrispondenza del collegio dei Buoni Fanciulli, l’altra era gestita da una società calabrese, ed aveva la sua stazione terminale presso le case popolari vicino al mulino. Durante questo periodo furono abbattute gran parte delle piante dei boschi di faggio che fino ad allora erano secolari. Adesso di faggi secolari ne sono rimasti ben pochi, si sono salvati solo quelli che erano cresciuti ai margini del bosco, e che quindi non erano abbastanza alti e regolari per produrre tavole.
Le bestie di notte si lasciavano in montagna, libere di muoversi e di pascolare, evitando di mandarle in zone con boschi in crescita “tagliate”. La mattina successiva bisognava camminare per ritrovarle. Il compito era facilitato nell’usare una cavalla come capo branco, munita di campana. Tutte gli altri muli seguivano la cavalla leader. Comunque dopo un po’ di tempo, si riuscivano a interpretare le abitudini delle bestie, ed il compito, a meno di eccezione, risultava facilitato. Quando il branco era particolarmente mobile, e costringeva il mulattiere a percorrere molta strada per ritrovarlo, si legavano con una corda le zampe anteriori “pastora” della cavalla capobranco, in modo da permettergli di compiere solo piccoli passi. Quest’operazione veniva fatta di controvoglia, e solo quando era indispensabile. Infastidiva la bestia, procurandogli anche delle piccole ferite in corrispondenza della legatura.  Il pascolo sulle montagne del paese non era gratuito, ma si doveva versare nelle case dell’amministrazione comunale una somma per bestia e per giorno. Se le bestie sconfinavano, andando sul territorio di un altro paese, potevano essere sequestrate dall’amministrazione del Comune di quel paese, e per la restituzione del bestiame era necessario versare una multa fissa, più una quota per ogni giorno di sequestro.
In questo periodo, la famiglia del mulattiere viveva nella propria abitazione del paese,  e quindi con tutte le comodità disponibili all’epoca. Allora il paese era particolarmente abitato, in quanto oltre ad essere pieno di mulattieri era popolato anche di pastori, che in estate portavano il gregge dalla campagna laziale ai monti del paese. Nel mese di agosto poi si festeggiava la Madonna dell’Assunta e S. Rocco e si partecipava alle processioni che allora erano consistenti. I mulattieri naturalmente indossavano il camice della confraternita di S.Antonio. Durante le feste di ferragosto, ci si rivedeva con gli amici e colleghi dopo molto tempo e ci si salutava con energiche pacche sulle spalle al motto soccio (collega)  oppure crasse (coetaneo), con il nome o soprannome. A Cappadocia, come in altri paesi, le persone erano conosciute più con il soprannome che con il nome di battesimo, e spesso il soprannome indicava genericamente l’intera famiglia. Il soprannome era molto più appropriato in quanto calzava su misura al personaggio, a tal proposito c’è un detto che dice: “ jo primo nome quaci sempre te jo sbajano, ma jo secondo te jo ‘ndovinano”.  Il giovane mulattiere approfittava del periodo festivo per adocchiare qualche ragazza interessante, preferibilmente figlia di mulattieri, con cui potersi fidanzare, e quando l’operazione non riusciva, per il rifiuto della giovane,  si diceva che aveva preso la  “pagnotta” ed era motivo di prese in giro tra i ragazzi.  I mulattieri che non erano potuti  venire alle feste di ferragosto, in quanto non di turno, e quelli che non avevano concluso il fidanzamento, avevano un’altra chance alle feste di settembre. Avevano luogo la prima domenica di questo mese. Dopo le feste si ritornava a lavoro nelle capanne, tra i boschi, qualche giovane che aveva iniziato una relazione con una ragazza, la sera prima di andare a letto si dedicava a scrivere lettere d’amore. Per essere facilitati in questo compito, data la loro poca confidenza con la penna, qualche volta attingevano frasi ad effetto dai libri “lettere d’amore”. Spesso questi libri se li passavano, e magari usavano la stessa frase, che poi andava a due ragazze  amiche. Mi ricordo che un giovane mulattiere, adattanto una frase di questi libri scriveva, seduto su una cassietta della sua capanna: “…ti vedo svolazzare in un angolo della mia stanza…”  
Terminata la stagione estiva ricominciava il periodo autunno-inverno. Fino agli anni 50, il trasferimento dai monti di Cappadocia alla campagna laziale, avveniva a piedi tagliando attraverso i monti Simbruini fino alla piana di Carsoli, per pernottare verso il quarantesimo chilometro della Tiburtina in località  “la spiaggia”. Qui c’era una locanda con stalla abbinata, dove era possibile far pernottare le persone e le bestie.  La mattina seguente, di buon ora, si riprendeva il cammino fino alla destinazione definitiva.


LE VENDEMMIE

Qualche mulattiere si fermava, per il mese di ottobre, ai Castelli Romani, prevalentemente a Marino, per trasportare l’uva dalle vigne alle cantine. Marino, in questo periodo, si riempiva di mulattieri che venivano prevalentemente da Cappadocia. Durante le vendemmie, il paese era pieno  di braccianti forestieri, era molto difficile trovare un alloggio e parecchi mulattieri, principalmente quelli che non avevano portato dietro il resto del nucleo familiare, dormivano nella stalla insieme con i muli, in questo caso li potevano governare e sorvegliare più facilmente. Erano comunque pochi i mulattieri che operavano nelle vendemmie, in quanto il periodo era breve, il lavoro massacrante e le condizioni ambientali avverse, dovendo operare in un centro abitato in cui era più gravoso guidare i muli, sottoposti a continui pericoli di far danno, ma il guadagno era allettante. I più assidui mulattieri delle vendemmie a Marino, erano mio padre Tomasso, Purgatorio, Palmiro e Raffaele di Bacucco. A tale proposito ricordo un episodio. Un vignaiolo cercava due muli “una gubbia” per il trasporto dei tini, si rivolse a mio padre che, essendo impegnato, gli consigliò di contattare Raffaele di Bacucco, che però non era conosciuto dal vignaiolo; per indicarglielo gli disse di recarsi in una piazza di Marino, dove in genere si riunivano i mulattieri, e di andare da quello che aveva il naso più grande. La sera, Raffaele incontrò mio padre e con il suo intercalare “essi bono” gli disse “compàrò” , come hai fatto a farmi riconoscere da quel signore così bene? Ho visto che è venuto da me diritto sparato puntandomi a 50 metri di distanza”.
Finite “le vendemmie” ci si dirigeva, per ricominciare il ciclo annuale, in un sito della campagna laziale a Nord della Capitale dove poi si rimaneva fino alla fine della primavera successiva. Si percorreva l’Appia Pignatelli e la passeggiata archeologica. Roma, pur se molto meno caotica di adesso, era percorsa oltre che da carretti anche da automobili, tram e bus. C’erano già i semafori agli incroci. Si racconta che Calloro [6] fu fermato da un vigile che gli intimò: “lei è in contravvenzione per essere passato con il semaforo rosso” e lui rispose “ ma  jo samafaro che è?”.


NUOVE FRONTIERE

La massima popolazione di mulattieri del Comune di Cappadocia risale agli anni 50. Pare che da un censimento effettuato in questo periodo la popolazione di muli ammontasse a circa 3000 unità. La concorrenza era notevole, a vantaggio dei commercianti di boschi che potevano imporre dei prezzi più bassi. Pertanto a partire da questa data parecchi mulattieri cominciarono a cercare altre piazze, con meno concorrenza.
Mio padre, all’inizio degli anni 50, attraverso dei taglialegna toscani che lavoravano insieme a noi a Civita Castellana, prese contatti con un imprenditore boschivo del Casentino, in provincia di Arezzo e da allora in poi, nei periodi estivi, salvo rare eccezioni, lavorò sempre in quei posti. Essendo il percorso di spostamento più lungo, il trasporto degli animali e dell’altro avveniva in parte tramite treno fino alla stazione più vicina alla destinazione, il resto veniva percorso a piedi. Successivamente, con l’avvento degli autocarri attrezzati per il trasporto delle bestie, il viaggio diventò molto più comodo e la stazione terminale era direttamente il posto da smacchiare.
In questi spostamenti a grande raggio, le donne ed i bambini non seguivano il resto della famiglia ma utilizzavano i normali mezzi di trasporto portando con sé qualche sacco, valigie, scatole di cartone e la immancabile gabbia delle galline. Quando transitavamo per Roma facevamo tappa da zia Filomena, ed avendo molti bagagli ci veniva a prendere mio cugino Giacobbe con l’apetta. Lui guidava e noi ci posizionavamo sul cassone posteriore insieme con i bagagli. Altre volte prendevamo il taxi, ed ogni volta era una storia perché il tassista non voleva caricare la gabbie di galline.
Arrivati a destinazione in via Germano Sommeiller, scaricavamo tutti i bagagli ed immancabilmente sentivo dire: “a mà butta ‘a pasta che è arivato er buro”. 
Altri mulattieri di Cappadocia, in questa fase, prevalentemente nei periodi estivi ma qualcuno anche stabilmente, si trasferirono in altre zone della Toscana e della Romagna ed altre regioni del Nord Italia, qualcuno in Sardegna ed altri persino in Francia. Qualche mulattiere si è poi stabilito in queste zone tant’è vero che nel periodo estivo, a Cappadocia, si sente spesso parlare il dialetto toscano. Il prof. Elio Mercuri, durante una presentazione presso i locali del Comune di Cappadocia, disse che era in possesso di una fotografia dei fratelli di Giustinella, una vecchietta che abitava a San Bestiano, vicino ai propri muli carichi di materiale da costruzione nei pressi di Brooklin, durante la realizzazione dell’omonimo ponte.


LE FESTE
 
Fino agli anni 60 i mulattieri hanno rappresentato, per il paese, un fenomeno importante, un’epopea. Si spostavano in massa verso i luoghi di lavoro subito dopo le feste estive. Ritornavano nel periodo estivo dell’anno successivo altrettanto numerosi. Ritornavano in occasione delle feste di ferragosto, “mezzagusto”, oppure perché in attesa dell’inizio della successiva stagione autunno-inverno, ed in questo caso utilizzavano il tempo morto  per il raccolto dei campi di loro proprietà. Gli uomini con l’ammasciata, venivano a piedi o con altri mezzi di trasporto, le donne ed i bambini con la corriera Forletta e Polsinelli che in quel periodo era sempre piena in arrivo, prima di ferragosto, e sempre piena in partenza, dopo ferragosto. Mostravano con orgoglio la propria ammasciata che doveva essere di bell’aspetto, ben nutrita ed ottimamente equipaggiata, doveva comunque essere motivo di vanto. In estate, i prati di Cappadocia, allora tutti coltivati a grano o fieno e granturco, pullulavano di mulattieri che trasportavano il raccolto. Si riempivano i fienili delle stalle, e trasportavano il grano per la famiglia propria e degli altri. Il mulo era sacro, in quanto era l’unica fonte del suo guadagno e doveva pertanto essere ben governato e nutrito e non maltrattato. Acquistava prima la stalla e poi la casa. L’economia del paese ruotava intorno al mulattiere con i suoi cicli stagionali. I sarti, nel periodo invernale, preparavano il vestiario per i mulattieri che lo ritiravano a ferragosto, i muratori ristrutturavano le abitazioni dei mulattieri, i falegnami costruivano mobili e cassette per loro, il calzolaio “jo Cincio” o il mio compare Giosuè realizzavano gli scarponi di lavoro ed inoltre erano nati mestieri direttamente collegati quali il bastaio “jo ‘mastaro” ed il fabbro che forgiava i ferri per muli e cavalli. I bambini, figli di mulattieri, giocavano con i cavallucci di creta, costruiti in proprio con “lo tufe” preso in appositi siti. Chi era particolarmente bravo in questa operazione, diventava il leader del gruppo. Allora il capogruppo non era quello che aveva più giocattoli ma quello che riusciva a costruirseli in quanto capace e intraprendente. Ai miei tempi uno di questi era Tonino di Coprifuoco, detto Piazza Navona, che ora vive in Toscana. Si giocava inoltre a nascondino, a topa, a sbuciafratti oppure ci si costruiva jo schioppitto con il legno di sambuco. Si tagliava un tronchetto diritto da un ramo di quest’albero, si svuotava parzialmente l’anima centrale morbida,  ricavando un condotto cilindrico  centrale dove si andavano a posizionare delle palline di carta del giusto diametro. Infine si inseriva un tondino di legno ben calibrato, di diametro leggermente superiore a quello del condotto, e lo si spingeva energicamente lungo l’anima del tronchetto che essendo elastica faceva da guarnizione. Si generava una sovrapressione nel condotto e la pallina veniva spinta fuori come un proiettile, producendo il caratteristico botto. 
Anche il dialetto ha attinto da questo mestiere, e sono state introdotte alcune frasi idiomatiche che fanno riferimento al  lavoro.
I mulattieri erano definiti jupitti dagli altri compaesani per distinguerli dai pastori, e dagli artigiani che si autodefinivano “artisti”. Nelle feste fra giovani, che si svolgevano nel paese prevalentemente durante la scartocciata, si tendeva ad invitare gruppi omogenei in quanto c’era una certa rivalità tra i vari insiemi. I vetturini, per mettere su famiglia, tendevano a scegliere come moglie una figlia di un altro mulattiere, in quanto era più disponibile a sopportare la dura vita che poi avrebbe dovuto affrontare. La ritenevano più affidabile da questo punto di vista. Ma con il passare del tempo, le ragazze erano meno disponibili a questo tipo di vita, e preferivano scegliere come futuro marito qualcuno che assicurasse loro una vita più comoda in città.
I mulattieri più anziani frequentavano le varie osterie di allora, Purgatorio, Pazzacchione, Penso io e j’Ufficiale, dove scambiavano quattro chiacchiere, bevendo qualche bicchiere di vino ed improvvisando di tanto in tanto qualche coro alpino o canto popolare abruzzese. Quelli più intonati cantavano, gli altri accordavano. Qualcuno più colto, entrato in carburazione, si metteva a declamare cantando, versi di poemi epici. Si ricordava tutte le strofe a memoria. Questi erano in prevalenza pastori, che mentre pascolavano il gregge, per passare il tempo leggevano più volte lo stesso libro perché solo quello possedevano, uno dei cantori era l’ometto strano. C’erano poi i creativi, che improvvisavano delle ballate personalizzate in rima, facendo riferimento alla vita del soggetto ed ai suoi parenti. Qui eccellevano Spiripacchio ed i suoi figli in particolar modo Salvadoritto che entrava subito in atmosfera facendo passare ai compagni serate allegre ed alternative, era il precursore dei cantautori, un Bob Dylan nostrano.


I MULATTIERI: CONCLUSIONI

I mulattieri  di Cappadocia, data la concorrenza, dovevano avere mestiere, ed erano ben considerati nelle zone dove prestavano sevizio, tant’è vero che parecchi colleghi di paesi vicini per sponsorizzarsi si spacciavano per cappadociani. Più che mulattieri, erano dei piccoli imprenditori, infatti c’erano famiglie che possedevano cinque o sei ‘mmasciate con circa trenta muli. Possedevano sempre una cavalla, che serviva per la razza e come capobranco per i muli. Allocare tutte queste bestie era, dal punto di vista organizzativo, un impegno. Bisognava trovare il lavoro,  combinare bene il prezzo, mantenere basti e tutto il resto del corredo, non far mancare mai la biada, trovare sistemazione alle bestie ed alle persone. Quando si restava senza lavoro, era un problema perché non si avevano entrate e le spese per il mantenimento delle bestie comunque procedeva. Per tale motivo, nelle famiglie più grandi, il capofamiglia si dedicava ad organizzare e programmare il lavoro frequentando i mercati ed i punti di incontro consueti, per essere sempre aggiornati sui prezzi e sistemare le sue ‘mmasciate.
Il mulattiere prestava generalmente servizio militare nel corpo degli alpini, e spesso, se non nascondeva il suo mestiere, lo mettevano a fare il conducente di muli. Qualcuno ne approfittava per fare il corso di mascalcia, che poi gli tornava utile nel suo lavoro quotidiano. In questi casi, quello più vanitoso, mostrava con orgoglio il diploma di mascalcia, incorniciandolo e mettendolo bene in mostra. Durante l’operazione di ferratura mostrava tutto il suo sapere, dando disposizioni in modo professorale e mettendo il cosiddetto “prezzo alla sarache”  al lavoro fatto da altri.
Durante il periodo invernale, il paese si svuotava e rimanevano solo “gli artisti” e qualche famiglia di mulattieri che non seguiva il capofamiglia nel suo ciclo di trasferimenti stagionali. Permetteva così ai figli di frequentare una scuola regolare ed accudire qualche anziano in precarie condizioni fisiche. A questo nucleo familiare, che restava al paese nel periodo invernale, era spesso assegnato il compito di governare i muli giovani che non erano ancora pronti per il lavoro e che pertanto il mulattiere non portava dietro.
Dal dopoguerra in poi, via via in maniera crescente, parecchi mulattieri hanno lasciato il lavoro trasferendosi a Roma e riconvertendosi in altri mestieri più comodi. I primi, per rimanere in tema, hanno aperto negozi di casalinghi carbone e legna, oppure fiaschetterie e osterie, altri si sono messi a fare i portieri nei condomini, altri ancora si sono arruolati in polizia, finanza ed altri corpi. La maggior parte, comunque, a partire dagli anni 60 ha venduto i muli acquistando un taxi ritornando quindi vetturino e facendo sempre “viai”.
Attualmente, essendosi nel territorio nazionale sviluppata una cospicua rete di strade carrabili,  la maggior parte dei trasporti avviene per ruota. L’uso del carbone di legna è considerevolmente diminuito e si produce direttamente in stabilimento. Il numero di mulattieri, per questi motivi è notevolmente diminuito ed a Cappadocia se ne contano poche unità. I vetturini superstiti, vivono molto diversamente dai loro predecessori, avendo a disposizione automobile o fuoristrada per gli spostamenti. E’ diventato un mestiere come un altro, ed il disagio non coinvolge più il resto della famiglia, che vive in una normale abitazione nel centro abitato più vicino.
Gli ex mulattieri, nel mese di agosto, si ritrovano ancora in piazza nei pressi dell’osteria “Purgatorio”,  l’unica rimasta, e pur se in pensione, o praticanti altri mestieri più convenzionali, parlano sempre di macchie, muli ed altri argomenti attinenti. Si sfottono a vicenda, con notevole senso dell’ironia, millantando le loro gesta passate e mettendo in evidenza gli errori degli altri. Amplificano le loro imprese denigrando quelle altrui; per mettere in risalto la lentezza nel lavoro di un mulattiere, un suo ex collega gli disse “a ti la lena tesse seccheva alle mani”. Si ricordano perfettamente tutti i muli con i rispettivi nomi che hanno posseduto e specialmente i loro pregi,  si ricordano anche i muli dei colleghi con i rispettivi difetti. Ognuno si sente più bravo dell'altro e qualcuno, offeso,  se la prende, “appizza le recchie” e comincia a scalciare “zicchiare”, ma quasi  sempre in senso metaforico.

 

[1] Mujaro in dialetto cappadociano, muaro in dialetto petrellano.
[2] Carlo Cassola, Il taglio del bosco, pag. 87.
[3] “Avevano poca manualità”. 
[4] “Hai risolto tutti i tuoi problemi”
[5] Con la monta  naturale è relativamente bassa: 30-50%
[6] Altro noto mulattiere cappadociano di quegli anni.

Tratto dal Libro Storia di Cappadocia, Petrella, Verrecchie di A. Fiorillo - 2005

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