Le origini di questo mestiere sono molto antiche. L’inizio della diffusione
del mestiere a Cappadocia si può far risalire alla seconda metà del 1800, nel
periodo immediatamente successivo all’unità d’Italia, quando sembra che i
primi mulattieri del paese siano stati impiegati per il trasporto del
materiale per la costruzione della ferrovia Roma-Pescara (1889).
La maggior parte dei mulattieri nel paese è, tuttavia, nata agli inizi del
1900. Questo lo desumo dal fatto che mio nonno paterno, nato nel 1865,
mulattiere negli anni della Prima Guerra Mondiale insieme a molti altri della
sua generazione, nei primi anni del Novecento faceva ancora il capraio.
Mio padre, classe 1905, raccontava di essere nato a Roma in quanto, durante il
periodo invernale, i caprai si recavano nella capitale dove vendevano il latte
di capra ai residenti, mungendolo direttamente nei recipienti dei clienti. Gli
uomini svolgevano questo lavoro a Piazza del Popolo e le donne a Piazza
Montanara, una piazza, non più esistente, vicino al teatro Marcello. In
questa piazza si teneva un vivace mercato frequentato prevalentemente da
contadini della campagna laziale, oltre che da abruzzesi e marchigiani. Questa
attività è poi completamente sparita.
A
maggior conforto di questa ipotesi aggiungo che mia madre, nata nel 1908,
apparteneva ad una famiglia di pastori successivamente riconvertita al
mestiere di mulattiere: i suoi fratelli minori, ricordava, avevano sempre
fatto i mulattieri.
Considerando, infine, che i Cappadociani sono abbastanza omogenei nelle loro
scelte e per il fatto che comune era la situazione sociale ed economica del
paese e ben poche le fonti di reddito, penso che il mestiere si sia affermato,
in maniera consistente, proprio ai primi del novecento.
Risulta che questa attività si sia originata e differenziata in due diversi
filoni: quello dei mulattieri “salamitrari” e quello dei “cavallari”.
I
salamitrari trasportavano il salnitro a dorso di asini e muli, i cavallari
usavano il cavallo per la trebbiatura del grano.
I
cavallari si consideravano appartenenti al ramo più nobile del mestiere e, nei
discorsi tra ex mulattieri, trattavano con una certa alterigia gli altri
mulattieri.
LA ‘MMASCIATA
Un mulattiere “mujaro”
[1],
o vetturino, conduceva generalmente un gruppo di cinque muli detto in dialetto
locale “ ‘mmasciata” e trasportava legna da ardere, carbone, traverse
ferroviarie, fascine ed anche tini pieni d’uva nel periodo delle vendemmie.
Qualche mulattiere ha lavorato anche per il trasporto di materiale per la
costruzione di tralicci elettrici in zone impervie, e qualcun altro
trasportava materiale per le miniere.
La maggior parte delle attività erano comunque legate ad esigenze di trasporto
a carattere stagionale e i mulattieri si trasferivano spesso nelle zone dove
era richiesto il loro lavoro, assumendo così caratteristiche quasi nomadi.
Un esempio di quanto detto era il lavoro di trasporto del legname abbattuto
durante i periodici tagli dei boschi nel territorio circostante o, talvolta,
in altre regioni d’Italia (Toscana).
L’arrivo del mulattiere, nel bosco da smacchiare era preceduto dal
taglialegna.
IL TAGLIALEGNA
I taglialegna, “tagghiaturi”, erano i primi ad operare, e quando
avevano tagliato una certa quantità di metri cubi entravano in azione i
mulattieri. I taglialegna arrivavano in gruppi di soli uomini ed, in genere,
alloggiavano in capanne nei pressi del bosco da tagliare.
Nel loro lavoro usavano l’accetta ed il segone per abbattere l’albero e
tagliare i pezzi più grossi, la roncola o pennato per i rami piccoli. Noi in
genere avevamo a che fare con squadre di taglialegna casentinesi di Badia
Prataglia. Mentre tagliavano, ogni piccolo inconveniente era accompagnato da
una bestemmia composta generalmente da due vocaboli, il primo dei quali era
sempre maremma o madonna ed il secondo dipendeva dalle circostanze. Ogni tanto
si riposavano per fumare sigarette costruite all’istante con cartine e tabacco
sfuso. Tagliata la legna, la sistemavano in cataste alte un metro e lunghe
multipli di mezzo metro detti metri steri. Questo sistema era utile per
quantificare il loro lavoro, e quello del mulattiere.
Negli anni 60 i taglialegna al posto dell’accetta cominciarono ad utilizzare
la motosega con motore a scoppio a due tempi.
Non ancora a conoscenza di questa evoluzione, e ascoltando il caratteristico
rumore di un motore a due tempi, mi chiedevo che cosa ci facesse per tutto il
giorno una lambretta in pieno bosco e su strade inaccessibili. Passando un
giorno vicino ad un albero che stavano abbattendo mi accorsi della novità.
Debbo dire che non mi fece una buona impressione, perché al caratteristico
profumo di legno tagliato e foglie si aggiungeva adesso anche l’acre odore dei
fumi di scarico completamente estraneo all’atmosfera del bosco.
Un’altra figura professionale che operava nel bosco era il carbonaio.
IL CARBONAIO
I
carbonai si costruivano delle capanne all’interno del bosco ed in genere
portavano con sé l’intera famiglia che tutta insieme partecipava al lavoro. Il
carbonaio era un mestiere difficile che si trasmetteva di padre in figlio.
Provenivano prevalentemente dall’Appennino toscano e Abruzzese, dalla
Garfagnana da Montemignaio e dalla Ciociaria. Il carbone è un prodotto della
distillazione della legna. Si ottiene facendo avvenire una combustione in
carenza di ossigeno, liberando le componenti più volatili e l’acqua. Il
carbone di legna ha un calore specifico di 7500 Kcal/Kg contro i 2500 Kcal/Kg
della legna verde. In tempi in cui il prezzo del trasporto era consistente,
risultava molto più conveniente produrre carbone direttamente nel bosco. La
cottura della legna era un’operazione molto delicata, che richiedeva grande
esperienza.
“Il carbonaio comincia con il costruire “l’uovo di legna”, alto fino a 3
metri, lo riveste in basso di zolle, sopra di uno strato di foglie secche e
terriccio. Egli ha avuto cura, accatastando il legname, di lasciar nel mezzo
un forno profondo una quarantina di centimetri. Viene dato fuoco di sopra; la
carbonaia fuma subito. All’incirca dopo dodici ore, l’uomo comincia a
praticare dei buchi, che poi tappa o stappa, a seconda di come spira il vento
al fine di assicurare un tiraggio uniforme.
La cottura dura tre giorni; se è stata fatta a regola d’arte, il carbone
acquista la tempera, cioè reagisce con l’umido sputando ragia bianca.”
[2]
Il carbone buono ha una colorazione nera con riflessi azzurri e spezzandolo
presenta una rottura netta e non si sfarina. Il carbone più pregiato è quello
ottenuto con legni forti quali leccio, quercia e cerro. Finito il processo di
cottura si lasciava raffreddare la carbonaia, possibilmente annaffiandola, e
successivamente il carbonaio provvedeva ad insaccare il carbone in appositi
sacchi di canapa ed aiutava il mulattiere a caricarli sui muli, 2 per soma.
Questo mestiere, per effetto della riduzione dei costi di trasporto e del
minor consumo, è quasi sparito ed il carbone, attualmente in commercio, si
produce in stabilimento con processi industriali automaticizzati oppure viene
importato dai paesi dell’Europa dell’est.
C’erano poi i fascettari che confezionavano le fascine permettendo ai
mulattieri di trasportarle, ed infine c’era il guardaimposto che provvedeva
ad accatastare la legna nell’imposto ottimizzando gli spazi e facilitando il
carico degli autocarri. Nei ritagli di tempo provvedeva a risistemare i
sentieri per agevolare il lavoro del vetturino.
LA VITA DEL MULATTIERE
Il mulattiere cappadociano, “mujaro”, nel periodo
autunno-inverno-primavera lavorava prevalentemente nella campagna laziale
trasportando legna da ardere e carbone, ed in alcune zone, come ad esempio
Civita Castellana, anche fascine che servivano ad alimentare i forni per la
cottura delle ceramiche. Alloggiava generalmente in abitazioni di fortuna che
qualche volta erano costituite dalle case dei contadini, altre volte da
cantine e, quando non si trovava altro, da capanne o persino in grotte. Quando
andava bene, alloggiava nelle case del paese più vicino. Durante la stagione
invernale le condizioni ambientali erano particolarmente gravose. A questo
proposito c’è un proverbio che dice “se vuoi patire le pene dell’inferno
fai il cuoco d’estate ed il mulattiere d’inverno”.
I
mulattieri, in genere, nel loro itinerare portavano con sé tutta la famiglia e
spesso, quando il bosco da smacchiare era particolarmente esteso e prevedeva
l’impiego di parecchie “ ‘mmasciate”, si costituivano dei veri e propri
accampamenti, con le diverse famiglie sistemate in capanne tra loro vicine.
Il maggior concentramento, a sentire i racconti dei miei genitori, è stato
quello del 1943/44 a Capocotta, residenza allora dei Savoia.
La realizzazione della capanna era affidata ai taglialegna, in quanto i
mujari manifestavano poca manualità, “ le tenevano stocche”
[3].
Per costruire la capanna si faceva un’armatura di rami, le pareti laterali,
leggermente inclinate, si rivestivano di zolle con la parte erbosa rivolta
verso l’interno. Sul tetto spiovente, a due falde, veniva stesa la carta
incatramata ricoperta di rami, sassi e ginestre per proteggerla dal vento e
non farla strappare. Veniva infine realizzata una porta di accesso fatta di
rami e foglie.
Nella capanna, il letto era costituito dalla
rapazzola, che consisteva in un sacco imbottito di foglie sistemato su
un telaio in legno e frasche, poggiato direttamente sul terreno. Succedeva
che, dopo un pò di tempo, il tetto della capanna, impermeabilizzato con carta
incatramata, per effetto del vento cominciava a perdere la sua funzione e
nelle giornate piovose bisognava provvedere a piccole riparazioni o a porre un
recipiente in corrispondenza della perdita. Risolti questi piccoli problemi,
il mulattiere poteva riposare tranquillamente “...ci si parato addù piove!”
[4].
In queste abitazioni primordiali non si era mai soli, si riceveva spesso la
visita di lucertole, topi, bisce ed altro. Al centro della capanna si
accendeva il fuoco che serviva ad illuminare, riscaldare e cucinare. Sul
tetto, in corrispondenza del fuoco era ricavato, in genere, un piccolo camino
per smaltire un po’ di fumo, il resto invadeva l’intera capanna. Gli utensili
per la cucina si limitavano a: un paiolo di rame, “jo callaro”, che
serviva per cuocere la pasta, qualche padella, qualche tegame di coccio per
cucinare i fagioli o il sugo, qualche bicchiere ed alcune posate di alluminio
ed un ferro da stiro che si scaldava ponendolo accanto al fuoco.
I tempi di cottura erano molto lunghi e conferivano al cibo un sapore ed una
consistenza particolare. Mi ricordo che quando ci siamo trasferiti a Roma, per
cucinare, anziché la legna si usava il gas, con tempi di cottura molto più
limitati e mia madre che non si era ancora adeguata, spesso, affaccendata in
altre operazioni, si dimenticava del tegame mandando in fumo il pasto e per
giustificarsi diceva “mamma se che è jo gas” ed i vicini di casa
esclamavano “ariecco er fumo de la sora Lucia.”. Per l’illuminazione,
oltre alla luce del fuoco, si usava la candela oppure la lampada ad acetilene
detta in dialetto scindilena, un piccolo gasogeno che produceva gas
acetilene partendo da carburo di calcio ed acqua. Il gas, tramite opportuno
rubinetto, usciva da un ugello “beccuccio” che reagendo con l’aria circostante
produceva una fiamma a forma di dardo molto luminosa, energica e calda (2200
°C) che difficilmente si spegneva se esposta al vento. Ogni giorno bisognava
fare la ricarica dell’acqua e del carburo, e a me piaceva molto l’odore
caratteristico del carburo bagnato. Per i bisogni fisiologici si “scendeva
in campo…”, per l’acqua si usavano delle copelle riempite nella
sorgente più vicina. Per lavare i panni si andava nel fontanile oppure nel
corso d’acqua più vicino. Si faceva la spesa ogni quindici giorni, e si
acquistavano cibi a lunga conservazione quali aringa affumicata, baccalà,
prosciutto, pancetta, conserva di pomodoro, insaccati, formaggio, farina,
pasta e così via. Il pane nelle cassiette si conservava per un po’ di
tempo ma dopo alcuni giorni per non sprecarlo, si era costretti a fare l’acqua
cotta, la panzanella ed altre cose del genere. Per la carne ci si alimentava,
qualche volta, con conigli e polli acquistati dai contadini e spesso il
mulattiere portava con sé anche un po’ di galline per avere uova fresche e
carne di pollo a disposizione. Un pasto tipico era la panuntella, con
pancetta e salsicce.
Spesso il mulattiere, specialmente nei periodi estivi, non portava con sé la
famiglia e pertanto oltre al lavoro doveva sbrigare anche tutte le altre
faccende domestiche: cucinare, lavare gli indumenti ed altro. Doveva essere
autosufficiente per lunghi periodi.
Il mulattiere indossava generalmente un paio di pantaloni di “pelle di
diavolo” con le tasche molto profonde per evitare di perdere il contenuto
che era costituito da un fazzoletto e da un coltello utile per mangiare e per
tagliare corde o cavezze in caso di emergenza. Una camicia robusta con
delle ampie tasche veniva portata sopra i pantaloni e legata con un nodo.
Sopra la camicia veniva indossato un giubbotto azzurro cucito in genere dalla
moglie.
Calzava scarponi pesanti di cuoio con le suole rinforzate da bollette e
rampini. Qualcuno si proteggeva la testa con il cappello, altri con un
fazzoletto annodato. I mulattieri più anziani al posto della cintura usavano
la fascia lunga 5 o 6 metri che avvolta con diversi giri al dorso oltre che
tenere i pantaloni proteggeva anche la vita.
Il mulattiere portava sempre un bucco che usava come contenitore
per il pranzo e per metterci la roncola indispensabile per il lavoro.
Talvolta, durante la stessa stagione, quando il lavoro non era abbastanza
consistente, era necessario spostarsi in posti limitrofi. I traslochi erano
abbastanza rapidi perché tutto il corredo di una famiglia di mulattieri era
contenuto in poche casse in legno dette cassiette costruite da
falegnami di Cappadocia, noi in genere ci fornivamo da Minicuccella.
C’era la cassietta degli alimenti, quella dei vestiti e quella degli
attrezzi e se la famiglia era numerosa venivano diversificate per persona.
Queste cassiette oltre che fungere da contenitori, venivano usate
spesso come sedie e tavoli. In gergo Cappadociano di un uomo che presenta una
schiena particolarmente arcuata si dice che possiede una bella cassietta.
Per traslocare bastava caricare due casse per mulo, i sacchi di biada,
eventuali gabbie delle galline e qualcos’altro e mettersi in movimento. Appena
si arrivava nel nuovo sito, dove già preventivamente si era provveduto a
reperire l’alloggio, si provvedeva a scaricare quei pochi bagagli ed a
riempire i pagliericci di paglia o foglie per poter dormire, ed a trovare una
sistemazione per i muli; a Civita Castellana ci accoglievano dicendo “arrivano
i Tocci con i fagotti”. Il giorno dopo gli uomini ricominciavano il
lavoro, ed i bambini in età scolastica venivano accompagnati dalla madre nella
nuova classe che nella maggior parte dei casi era una pluriclasse a diversi
chilometri di distanza dall’abitazione. Si cambiava scuola tre o quattro volte
l’anno, dimostrando grande spirito di adattamento e notevole velocità di
inserimento vincendo subito le avversità iniziali. Mio fratello Michele, nel
primo giorno di scuola a S.Oreste fu accolto da un dettato proposto dal
maestro: “Oggi è arrivato, nella scuola elementare di S.Oreste, un nuovo
alunno di un paese lontano, con le scarpe di pezza e le toppe ai pantaloni…”.
In famiglia ci si esprimeva in dialetto, con gli abitanti del posto si
cercava, per quanto possibile, di usare l’italiano, anzi si facevano “le
parlatine” che era un misto tra italiano e dialetto nobilitato. Ad esempio
si può constatare che diverse parole dialettali cappadociane diventano
vocaboli della lingua italiana convertendo una ‘i’ con una ‘e’ così con questa
regola “sicchio” si italianizza in secchio, “tigame” in tegame e
così via. Usando questa regola, mio fratello “Bocalone” mentre si
trovava in classe, in una giornata invernale con il fuoco acceso, chiese
all’insegnante “signora maestra, potrei spostare quel tezzone?” e la
maestra rispose “ma come parli? Non si dice tezzone si dice tizzone”,
era stato sfortunato, tizzone faceva eccezione.
I
muli in inverno venivano alloggiati nelle stalle o, dove era possibile, in
appezzamenti di terreno ben delimitati, onde evitare fughe ed altri
inconvenienti. Quando i muli venivano alloggiati nelle stalle bisognava
controllarli periodicamente durante la notte, “stramare” per
alimentarli ed evitare possibili inconvenienti. Ogni giorno il mulattiere si
alzava molto presto, e verso le 3 o le 4 del mattino prendeva le bestie,
metteva loro il basto, e le nutriva con una razione di biada contenuta in
contenitori detti bucchi, appesi al muso del mulo a mò di museruola e
nel frattempo anche lui faceva colazione con una sostanziosa panuntella.
A
questo punto cominciava il suo lavoro, che consisteva nel trasportare il
carico dal posto di origine fino al deposito “imposto”, che generalmente era
situato in uno slargo, vicino ad una strada carrabile, dove poteva arrivare un
camion per trasportare la merce verso altre destinazioni. Il carico di ogni
bestia era circa di due quintali, ed una volta scaricata la soma nell’imposto,
si riavvolgevano le corde che erano servite per legarla e si raggruppavano i
muli per “ ‘mmasciata”, legandoli tra di loro in fila indiana. Il
mulattiere si riavviava verso il bosco per continuare il lavoro cavalcando il
primo mulo della fila. Questo percorso “viaio” era ripetuto più volte
al giorno, a seconda della distanza, fino al calar del sole. Durante la
giornata, all’ora di pranzo, veniva effettuata una sosta per permettere il
pasto ai muli ed ai loro conducenti.
Al termine della giornata lavorativa, si riportavano i muli nei loro alloggi e
si provvedeva a dar loro l’ultimo pasto della giornata. Si toglieva quindi il
basto e, sentendosi liberi, i muli si rotolavano in terra, “ucicavano”,
anche per togliersi il prurito dovuto a qualche piccola ferita. In ultimo, il
mulattiere, si dedicava ad eventuali operazioni accessorie, quali riparazione
di basti e corde e, se necessario, alla ferratura.
LA FERRATURA
La ferratura del mulo veniva fatta direttamente dal vetturino, a freddo,
usando ferri già a disposizione. Si era sempre in possesso di un corredo di
ferri, acquistati presso i fabbri di Tagliacozzo, delle misure corrispondenti
ai propri muli. Noi ci rifornivamo da Tomassino. Veniva prima tolto, con le
tenaglie, quel che rimaneva del ferro vecchio, quindi spianato lo zoccolo con
un attrezzo che chiamavano incastro, una specie di scalpello ben affilato con
il manico a cazzuola, si tagliava le unghie eccedenti spianando la superficie
ed infine si rifiniva con una raspa. Quindi si applicava il ferro nuovo, che
veniva inchiodato con la dovuta precauzione e precisione per evitare che i
chiodi, oltrepassando lo strato d'unghia, andassero a ledere la parte viva
dello zoccolo. Si tagliava infine la parte eccedente del chiodo, ribattendone
una parte sulla superficie laterale dello zoccolo, in modo che non si potesse
sfilare. Durante questa operazione un mulattiere provvedeva a reggere la
zoccolo, ed un altro a ferrare, e talvolta, non avendo un compagno a
disposizione, provvedeva da solo sia a tenere lo zoccolo che a ferrare.
Per il trasporto della soma è indispensabile il basto, ‘masto.
IL BASTO (JO ‘MASTO)
A
Cappadocia c’erano diversi artigiani che producevano basti, uno stava a piazza
S.Sebastiano all’inizio di via dell’Assemblea, un altro al piazzale di fronte
al municipio e un altro ancora al colle dove lavoravano bastai di Sante Marie.
Il basto era composto da una armatura portante in legno di faggio così
costituita: due travi curve ad U, poste a distanza di circa 30 cm l’una
dall’altra, detti arcioni, il primo ad arco acuto, il secondo più arrotondato,
in modo da seguire la sagoma del dorso del mulo, collegati tra di loro da due
tavolette sempre in legno di faggio leggermente curvate per seguire la sagoma
degli arcioni. Gli arcioni erano ricavati da alberi di faggio particolarmente
contorti che normalmente crescono sui crinali dei monti. Crescono storti in
questa maniera per effetto del vento. Ogni arcione, per completare la sua
lunghezza, aveva da ambo i lati un’appendice denominata pennecchia
inchiodata all’arcione principale. Questo termine, per somiglianza, viene
tutt’ora usato per indicare un naso particolarmente pronunciato, “che bella
pennecchia!”. Sugli arcioni erano ricavati dei fori per l’ancoraggio di
corde e catene, necessarie per legare la soma. Nella parte convessa di questa
armatura, era poi ancorata tutta l’imbottitura in paglia e crine che serviva
ad adagiare e distribuire il peso della soma sul dorso del mulo. Il basto era
corredato da una cinghia e degli straccali che servivano a renderlo solidale
alla bestia, e a non farlo scendere in salita o in discesa. Come detto in
precedenza, il basto era corredato da corde, due per parte dette jacquoi,
per legare le due mezze some, e da una corda più lunga detta susta per
sostenere ulteriormente l’intera soma. Queste corde, negli anni 60, furono
sostituite da elementi in pelle di bufalo che assicuravano maggiore
resistenza, minore manutenzione e migliore maneggevolezza specialmente in caso
di pioggia quando le funi in canapa si irrigidivano e la legatura era
difficoltosa.
LA SOMA
Per caricare la soma di legna sul basto del mulo, era necessario aiutarsi con
una verga in legno, detta carecatora, lunga un paio di metri che,
nella parte finale, aveva uno o più appigli costituiti da rami tagliati. La
base della carecatora si puntava nel terreno, in posizione leggermente
inclinata rispetto alla verticale, ed uno degli appigli andava ad agganciare
una corda legata alla parte inferiore del basto ed a questo punto si caricava
la mezza soma che alla fine veniva legata dai due jacquoi, si procedeva
quindi in maniera analoga al caricamento dell’altra mezza soma. Al termine,
svincolando le due caricatore dal terreno, si faceva gravare l’intero peso
della soma sul mulo. Si facevano fare alcuni passi al mulo, verificando che il
carico fosse equilibrato, e nel caso negativo si poneva un altro pezzo di
legna, di peso proporzionale allo squilibrio, sulla semisoma più leggera, che
tendeva ad alzarsi, fino a riequilibrare il carico “la soma si aggiusta
strada facendo”. Per scaricare la soma all’imposto, si faceva il
contrario, si slegavano prima gli jacquoi ed infine sciogliendo la
susta veniva giù l’intero carico.
I
mulattieri lavoravano tutti i giorni dal lunedì mattina al mezzogiorno della
domenica, anche nelle giornate piovose. Nelle giornate particolarmente avverse
non si usciva con i muli, ma si approfittava per effettuare piccoli lavori di
manutenzione ai basti, cavezze ed altro. Talvolta, in queste circostanze, si
andava in cerca di legno di bagolaro (buzzarago) per costruire le
ciammelle. Si prendevano gli alberelli piccoli dell’albero, di diametro di
due o tre centimetri, si scorticavano, si mettevano poi vicino al fuoco ed
ogni tanto, in maniera progressiva, gli si dava una piegata fino a fargli
assumere la forma definitiva di alfa, dopodiché si bloccava la posizione con
due piccoli incassi combacianti, dei chiodini e dello spago sottile
trinciafio. Queste ciammelle servivano a legare la soma al basto,
ed in mancanza di esse si usavano degli anelli in acciaio che però erano meno
ergonomici e tendevano ad usurare maggiormente le corde. Il mulattiere curava
le piccole ferite della bestia, fornendo le giuste medicazioni, per questioni
più gravi chiamava il veterinario ed in casi estremi si raccomandava a
S.Antonio. L’immagine di S.Antonio era sempre presente nelle stalle a
protezione degli animali ed il giorno del santo si portavano le bestie a
benedire.
IL MULO
Il mulo (mujo), animale ibrido, è figlio della cavalla e dell’asino.
Per ovviare alle difficoltà dell'accoppiamento tra cavalla e asino, si
consiglia la fecondazione artificiale, che aumenta anche la percentuale di
fecondità
[5].
La durata della gravidanza nella cavalla ingravidata da stallone asino è
intermedia tra le due specie (11 mesi per quella cavallina, 12 mesi per la
specie asinina): è cioè 1-2 settimane più lunga rispetto a quella del cavallo.
Di norma la cavalla ripresenta l'estro nella prima settimana successiva al
parto e potrà essere fatta rifecondare. I muli sono particolarmente vivaci
prima di essere domati, e quelli particolarmente irrequieti per caricarli o
ferrarli si bendano. Quando ha cattive intenzioni allinea le orecchie
all’indietro, in questo caso si dice che “appizza le recchie” e come
conseguenza bisogna stare in guardia da possibili morsi o calci. Questa
espressione “appizzare le recchie” viene spesso usata in dialetto come
metafora per identificare persone di cattivo umore.
La domatura, intesa come addestramento al lavoro, viene praticata verso i
18-24 mesi, nella stessa maniera adottata per il cavallo e l'asino.
I
muli maschi prima di addestrarli al lavoro venivano castrati.
Il pieno rendimento si ha intorno a 4 anni di età. La rusticità è notevole,
però il carattere è difficile, indipendente e scontroso; per questo motivo gli
animali non vanno mai trattati duramente, per evitare risultati negativi e
anche per l'istinto vendicativo del mulo. I muli hanno vita lunga (come
l'asino): si ricordano muli che hanno prestato lavoro, anche pesante, per 15 e
persino 20 anni. Per la determinazione dell'età si ricorre all'esame della
dentatura che differisce assai poco da quella dell'asino.
L’altro ibrido, denominato bardotto, è figlio dell’asina e del cavallo.
Fisicamente è molto simile al mulo tant’è vero che spesso i mulattieri hanno
acquistato bardotti pensando che fossero muli. I mulattieri lo chiamano anche
mulo somarino.
Il bardotto, come il mulo, quando in branco, tende a seguire, come capobranco,
più l’asina che la cavalla e pertanto tende ad isolarsi dal branco di muli che
seguono; tale comportamento mette in difficoltà i mulattieri che non riescono
a ritrovare il branco compatto quando questo sia stato lasciato in libertà.
A
Cappadocia ed in tutti gli altri luoghi, esiste anche l’uomo somarino,
individuo poco socievole, che si separa dagli altri, mostrando un carattere
tendente all’isolamento.
I
muli e bardotti maschi sono considerati da quasi tutti gli studiosi sempre
sterili; le femmine possono essere occasionalmente fertili. Non sono rari i
casi di mule che hanno concepito e partorito soggetti vivi e vitali, asini nel
caso di stallone asino e cavallo se lo stallone è stato un cavallo.
Il mulo ha testa più grossa e orecchie più lunghe del cavallo, collo corto con
scarsa criniera (più abbondante nel bardotto), garrese basso, dorso spesso
convesso, groppa tagliente, coda con pochi crini. Gli arti sono asciutti, con
articolazioni larghe e solide, piedi cilindrici e talloni alti e stretti. Il
pelo è corto. I mantelli più frequenti sono il nero e il grigio; il sauro è
raro. Talvolta si ha la riga mulina; più frequenti sono le zebrature, specie
quando il mantello è baio.
A
primavera cambiano il pelo da lungo a corto. Il mulo è meno ricettivo del
cavallo alle malattie e alle coliche; minori sono anche le esigenze di
governo, di cure igieniche e di custodia. Se il mulo è proverbiale per la
caparbietà e spesso per la cattiveria, in compenso compie il lavoro con grande
energia e molta resistenza, anche sulle strade montane più impervie, con passo
sicuro e costante andatura.
Il mulo è impiegato per il traino e per la soma. Il mulo da soma, ha per lo
più taglia piccola, da m 1,30-1,40 e un peso vivo di kg 300-400. I nomi tipici
dei muli erano: moro, bufalo, pastora, lupetto, navicella, marisella,
soprana, mascherino, serpente, vipera, passatore, pauncella, liborio, pacioso
ed altri. Tutti i muli di nome mascherino che ho visto, erano di colore
bianco-grigio, chissà se era una combinazione Noi avevamo un mulo, di nome
pacioso, che era particolarmente docile ed aveva l’abitudine, nel tempo
libero, di rilassarsi poggiando il sedere in terra con le zampe anteriori
dritte nella posizione che assumono i cani, questa posizione lo rendeva
particolarmente simpatico. Io, che ero bambino, gli passavo sotto le zampe,
gli mettevo le mani in bocca gli davo schiaffi sulle guance e pizzicavo le
labbra; non si è mai lamentato.
LE FIERE
I
mulattieri, periodicamente, per motivi di lavoro avevano bisogno di
incontrarsi tra loro e con le altre maestranze del bosco; il punto di
raccolta erano i portici di Piazza dei Cinquecento, vicino alla Stazione
Termini di Roma, il giovedì mattina ed in maniera più plenaria il lunedì di
Pasqua. In questa circostanza si combinavano lavori, si acquistavano o
vendevano muli e si concludevano altre operazioni a corredo.
Prima della seconda guerra mondiale si incontravano presso piazza Margana,
vicino a Piazza Venezia ed alloggiavano nella locanda “Angelino” che poi si è
trasformata in un albergo per turisti. Vicino c’era la ferramenta Bracuglia,
chiusa pochi anni fa, dove i mulattieri acquistavano chiodi per la ferratura,
ferri e altro. Questo luogo forse fu scelto, perché prima degli sventramenti
di inizio 900, era in vicinanza di Piazza Montanara, adiacente al teatro
Marcello, dove si teneva un fiorente mercato specialmente con gente che veniva
dalla campagna romana.
Altri luoghi di incontro erano la fiera di Bracciano, il primo maggio, dove
ancora oggi si recano mulattieri ed ex mulattieri nostalgici e la fiera di S.
Rocco a Tagliacozzo il 16 Agosto.
LA STAGIONE ESTIVA
Finito il periodo inverno-primavera, nella stagione estiva si lavorava in
quota, fino agli anni 50 nelle montagne di Cappadocia, dell’Abruzzo o al
Terminillo. Si trasportava legna, carbone e traverse ferroviarie. La strada
carrabile terminava a Cappadocia ed essendo i boschi situati in un ampio
territorio lontano dal paese, si riusciva a fare in un giorno uno o due viaggi
al massimo. L’imposto del carbone era situato di fronte ai giardinetti. Tra il
1930 e il 1950, per abbassare il costo del trasporto, furono installate due
teleferiche a gravità che trasportavano tronchi, carbone e legna fino alla
base. Una era gestita da una ditta piemontese, ed aveva la sua base in
corrispondenza del collegio dei Buoni Fanciulli, l’altra era gestita da una
società calabrese, ed aveva la sua stazione terminale presso le case popolari
vicino al mulino. Durante questo periodo furono abbattute gran parte delle
piante dei boschi di faggio che fino ad allora erano secolari. Adesso di faggi
secolari ne sono rimasti ben pochi, si sono salvati solo quelli che erano
cresciuti ai margini del bosco, e che quindi non erano abbastanza alti e
regolari per produrre tavole.
Le bestie di notte si lasciavano in montagna, libere di muoversi e di
pascolare, evitando di mandarle in zone con boschi in crescita “tagliate”.
La mattina successiva bisognava camminare per ritrovarle. Il compito era
facilitato nell’usare una cavalla come capo branco, munita di campana. Tutte
gli altri muli seguivano la cavalla leader. Comunque dopo un po’ di
tempo, si riuscivano a interpretare le abitudini delle bestie, ed il compito,
a meno di eccezione, risultava facilitato. Quando il branco era
particolarmente mobile, e costringeva il mulattiere a percorrere molta strada
per ritrovarlo, si legavano con una corda le zampe anteriori “pastora”
della cavalla capobranco, in modo da permettergli di compiere solo piccoli
passi. Quest’operazione veniva fatta di controvoglia, e solo quando era
indispensabile. Infastidiva la bestia, procurandogli anche delle piccole
ferite in corrispondenza della legatura. Il pascolo sulle montagne del paese
non era gratuito, ma si doveva versare nelle case dell’amministrazione
comunale una somma per bestia e per giorno. Se le bestie sconfinavano, andando
sul territorio di un altro paese, potevano essere sequestrate
dall’amministrazione del Comune di quel paese, e per la restituzione del
bestiame era necessario versare una multa fissa, più una quota per ogni giorno
di sequestro.
In questo periodo, la famiglia del mulattiere viveva nella propria abitazione
del paese, e quindi con tutte le comodità disponibili all’epoca. Allora il
paese era particolarmente abitato, in quanto oltre ad essere pieno di
mulattieri era popolato anche di pastori, che in estate portavano il gregge
dalla campagna laziale ai monti del paese. Nel mese di agosto poi si
festeggiava la Madonna
dell’Assunta e S. Rocco e si partecipava alle processioni che allora erano
consistenti. I mulattieri naturalmente indossavano il camice della
confraternita di S.Antonio. Durante le feste di ferragosto, ci si rivedeva con
gli amici e colleghi dopo molto tempo e ci si salutava con energiche pacche
sulle spalle al motto soccio (collega) oppure crasse
(coetaneo), con il nome o soprannome. A Cappadocia, come in altri
paesi, le persone erano conosciute più con il soprannome che con il nome di
battesimo, e spesso il soprannome indicava genericamente l’intera famiglia. Il
soprannome era molto più appropriato in quanto calzava su misura al
personaggio, a tal proposito c’è un detto che dice: “ jo primo nome quaci
sempre te jo sbajano, ma jo secondo te jo ‘ndovinano”. Il giovane
mulattiere approfittava del periodo festivo per adocchiare qualche ragazza
interessante, preferibilmente figlia di mulattieri, con cui potersi fidanzare,
e quando l’operazione non riusciva, per il rifiuto della giovane, si diceva
che aveva preso la “pagnotta” ed era motivo di prese in giro tra i
ragazzi. I mulattieri che non erano potuti venire alle feste di ferragosto,
in quanto non di turno, e quelli che non avevano concluso il fidanzamento,
avevano un’altra chance alle feste di settembre. Avevano luogo la prima
domenica di questo mese. Dopo le feste si ritornava a lavoro nelle capanne,
tra i boschi, qualche giovane che aveva iniziato una relazione con una
ragazza, la sera prima di andare a letto si dedicava a scrivere lettere
d’amore. Per essere facilitati in questo compito, data la loro poca confidenza
con la penna, qualche volta attingevano frasi ad effetto dai libri “lettere
d’amore”. Spesso questi libri se li passavano, e magari usavano la stessa
frase, che poi andava a due ragazze amiche. Mi ricordo che un giovane
mulattiere, adattanto una frase di questi libri scriveva, seduto su una
cassietta della sua capanna: “…ti vedo svolazzare in un angolo della
mia stanza…”
Terminata la stagione estiva ricominciava il periodo autunno-inverno. Fino
agli anni 50, il trasferimento dai monti di Cappadocia alla campagna laziale,
avveniva a piedi tagliando attraverso i monti Simbruini fino alla piana di
Carsoli, per pernottare verso il quarantesimo chilometro della Tiburtina in
località “la spiaggia”. Qui c’era una locanda con stalla abbinata, dove era
possibile far pernottare le persone e le bestie. La mattina seguente, di buon
ora, si riprendeva il cammino fino alla destinazione definitiva.
LE VENDEMMIE
Qualche mulattiere si fermava, per il mese di ottobre, ai Castelli Romani,
prevalentemente a Marino, per trasportare l’uva dalle vigne alle cantine.
Marino, in questo periodo, si riempiva di mulattieri che venivano
prevalentemente da Cappadocia. Durante le vendemmie, il paese era pieno di
braccianti forestieri, era molto difficile trovare un alloggio e parecchi
mulattieri, principalmente quelli che non avevano portato dietro il resto del
nucleo familiare, dormivano nella stalla insieme con i muli, in questo caso li
potevano governare e sorvegliare più facilmente. Erano comunque pochi i
mulattieri che operavano nelle vendemmie, in quanto il periodo era breve, il
lavoro massacrante e le condizioni ambientali avverse, dovendo operare in un
centro abitato in cui era più gravoso guidare i muli, sottoposti a continui
pericoli di far danno, ma il guadagno era allettante. I più assidui mulattieri
delle vendemmie a Marino, erano mio padre Tomasso, Purgatorio, Palmiro e
Raffaele di Bacucco. A tale proposito ricordo un episodio. Un vignaiolo
cercava due muli “una gubbia” per il trasporto dei tini, si rivolse a
mio padre che, essendo impegnato, gli consigliò di contattare Raffaele di
Bacucco, che però non era conosciuto dal vignaiolo; per indicarglielo gli
disse di recarsi in una piazza di Marino, dove in genere si riunivano i
mulattieri, e di andare da quello che aveva il naso più grande. La sera,
Raffaele incontrò mio padre e con il suo intercalare “essi bono” gli
disse “compàrò” , come hai fatto a farmi riconoscere da quel signore
così bene? Ho visto che è venuto da me diritto sparato puntandomi a 50 metri
di distanza”.
Finite “le vendemmie” ci si dirigeva, per ricominciare il ciclo
annuale, in un sito della campagna laziale a Nord della Capitale dove poi si
rimaneva fino alla fine della primavera successiva. Si percorreva l’Appia
Pignatelli e la passeggiata archeologica. Roma, pur se molto meno caotica di
adesso, era percorsa oltre che da carretti anche da automobili, tram e bus.
C’erano già i semafori agli incroci. Si racconta che Calloro
[6]
fu fermato da un vigile che gli intimò: “lei è in contravvenzione per essere
passato con il semaforo rosso” e lui rispose “ ma jo samafaro che è?”.
NUOVE FRONTIERE
La massima popolazione di mulattieri del Comune di Cappadocia risale agli anni
50. Pare che da un censimento effettuato in questo periodo la popolazione di
muli ammontasse a circa 3000 unità. La concorrenza era notevole, a vantaggio
dei commercianti di boschi che potevano imporre dei prezzi più bassi. Pertanto
a partire da questa data parecchi mulattieri cominciarono a cercare altre
piazze, con meno concorrenza.
Mio padre, all’inizio degli anni 50, attraverso dei taglialegna toscani che
lavoravano insieme a noi a Civita Castellana, prese contatti con un
imprenditore boschivo del Casentino, in provincia di Arezzo e da allora in
poi, nei periodi estivi, salvo rare eccezioni, lavorò sempre in quei posti.
Essendo il percorso di spostamento più lungo, il trasporto degli animali e
dell’altro avveniva in parte tramite treno fino alla stazione più vicina alla
destinazione, il resto veniva percorso a piedi. Successivamente, con l’avvento
degli autocarri attrezzati per il trasporto delle bestie, il viaggio diventò
molto più comodo e la stazione terminale era direttamente il posto da
smacchiare.
In questi spostamenti a grande raggio, le donne ed i bambini non seguivano il
resto della famiglia ma utilizzavano i normali mezzi di trasporto portando con
sé qualche sacco, valigie, scatole di cartone e la immancabile gabbia delle
galline. Quando transitavamo per Roma facevamo tappa da zia Filomena, ed
avendo molti bagagli ci veniva a prendere mio cugino Giacobbe con l’apetta.
Lui guidava e noi ci posizionavamo sul cassone posteriore insieme con i
bagagli. Altre volte prendevamo il taxi, ed ogni volta era una storia perché
il tassista non voleva caricare la gabbie di galline.
Arrivati a destinazione in via Germano Sommeiller, scaricavamo tutti i bagagli
ed immancabilmente sentivo dire: “a mà butta ‘a pasta che è arivato er buro”.
Altri mulattieri di Cappadocia, in questa fase, prevalentemente nei periodi
estivi ma qualcuno anche stabilmente, si trasferirono in altre zone della
Toscana e della Romagna ed altre regioni del Nord Italia, qualcuno in Sardegna
ed altri persino in Francia. Qualche mulattiere si è poi stabilito in queste
zone tant’è vero che nel periodo estivo, a Cappadocia, si sente spesso parlare
il dialetto toscano. Il prof. Elio Mercuri, durante una presentazione presso i
locali del Comune di Cappadocia, disse che era in possesso di una fotografia
dei fratelli di Giustinella, una vecchietta che abitava a San Bestiano,
vicino ai propri muli carichi di materiale da costruzione nei pressi di
Brooklin, durante la realizzazione dell’omonimo ponte.
LE FESTE
Fino agli anni 60 i mulattieri hanno rappresentato, per il paese, un fenomeno
importante, un’epopea. Si spostavano in massa verso i luoghi di lavoro subito
dopo le feste estive. Ritornavano nel periodo estivo dell’anno successivo
altrettanto numerosi. Ritornavano in occasione delle feste di ferragosto, “mezzagusto”,
oppure perché in attesa dell’inizio della successiva stagione autunno-inverno,
ed in questo caso utilizzavano il tempo morto per il raccolto dei campi di
loro proprietà. Gli uomini con l’ammasciata, venivano a piedi o con
altri mezzi di trasporto, le donne ed i bambini con la corriera Forletta e
Polsinelli che in quel periodo era sempre piena in arrivo, prima di
ferragosto, e sempre piena in partenza, dopo ferragosto. Mostravano con
orgoglio la propria ammasciata che doveva essere di bell’aspetto, ben
nutrita ed ottimamente equipaggiata, doveva comunque essere motivo di vanto.
In estate, i prati di Cappadocia, allora tutti coltivati a grano o fieno e
granturco, pullulavano di mulattieri che trasportavano il raccolto. Si
riempivano i fienili delle stalle, e trasportavano il grano per la famiglia
propria e degli altri. Il mulo era sacro, in quanto era l’unica fonte del suo
guadagno e doveva pertanto essere ben governato e nutrito e non maltrattato.
Acquistava prima la stalla e poi la casa. L’economia del paese ruotava intorno
al mulattiere con i suoi cicli stagionali. I sarti, nel periodo invernale,
preparavano il vestiario per i mulattieri che lo ritiravano a ferragosto, i
muratori ristrutturavano le abitazioni dei mulattieri, i falegnami costruivano
mobili e cassette per loro, il calzolaio “jo Cincio” o il mio compare
Giosuè realizzavano gli scarponi di lavoro ed inoltre erano nati
mestieri direttamente collegati quali il bastaio “jo ‘mastaro” ed il
fabbro che forgiava i ferri per muli e cavalli. I bambini, figli di
mulattieri, giocavano con i cavallucci di creta, costruiti in proprio con “lo
tufe” preso in appositi siti. Chi era particolarmente bravo in questa
operazione, diventava il leader del gruppo. Allora il capogruppo non
era quello che aveva più giocattoli ma quello che riusciva a costruirseli in
quanto capace e intraprendente. Ai miei tempi uno di questi era Tonino di
Coprifuoco, detto Piazza Navona, che ora vive in Toscana. Si
giocava inoltre a nascondino, a topa, a sbuciafratti oppure ci
si costruiva jo schioppitto con il legno di sambuco. Si tagliava un
tronchetto diritto da un ramo di quest’albero, si svuotava parzialmente
l’anima centrale morbida, ricavando un condotto cilindrico centrale dove si
andavano a posizionare delle palline di carta del giusto diametro. Infine si
inseriva un tondino di legno ben calibrato, di diametro leggermente superiore
a quello del condotto, e lo si spingeva energicamente lungo l’anima del
tronchetto che essendo elastica faceva da guarnizione. Si generava una
sovrapressione nel condotto e la pallina veniva spinta fuori come un
proiettile, producendo il caratteristico botto.
Anche il dialetto ha attinto da questo mestiere, e sono state introdotte
alcune frasi idiomatiche che fanno riferimento al lavoro.
I
mulattieri erano definiti jupitti dagli altri compaesani per
distinguerli dai pastori, e dagli artigiani che si autodefinivano “artisti”.
Nelle feste fra giovani, che si svolgevano nel paese prevalentemente durante
la scartocciata, si tendeva ad invitare gruppi omogenei in quanto c’era
una certa rivalità tra i vari insiemi. I vetturini, per mettere su famiglia,
tendevano a scegliere come moglie una figlia di un altro mulattiere, in quanto
era più disponibile a sopportare la dura vita che poi avrebbe dovuto
affrontare. La ritenevano più affidabile da questo punto di vista. Ma con il
passare del tempo, le ragazze erano meno disponibili a questo tipo di vita, e
preferivano scegliere come futuro marito qualcuno che assicurasse loro una
vita più comoda in città.
I
mulattieri più anziani frequentavano le varie osterie di allora, Purgatorio,
Pazzacchione, Penso io e j’Ufficiale, dove scambiavano
quattro chiacchiere, bevendo qualche bicchiere di vino ed improvvisando di
tanto in tanto qualche coro alpino o canto popolare abruzzese. Quelli più
intonati cantavano, gli altri accordavano. Qualcuno più colto, entrato in
carburazione, si metteva a declamare cantando, versi di poemi epici. Si
ricordava tutte le strofe a memoria. Questi erano in prevalenza pastori, che
mentre pascolavano il gregge, per passare il tempo leggevano più volte lo
stesso libro perché solo quello possedevano, uno dei cantori era l’ometto
strano. C’erano poi i creativi, che improvvisavano delle ballate
personalizzate in rima, facendo riferimento alla vita del soggetto ed ai suoi
parenti. Qui eccellevano Spiripacchio ed i suoi figli in particolar
modo Salvadoritto che entrava subito in atmosfera facendo passare ai
compagni serate allegre ed alternative, era il precursore dei cantautori, un
Bob Dylan nostrano.
I MULATTIERI: CONCLUSIONI
I
mulattieri di Cappadocia, data la concorrenza, dovevano avere mestiere, ed
erano ben considerati nelle zone dove prestavano sevizio, tant’è vero che
parecchi colleghi di paesi vicini per sponsorizzarsi si spacciavano per
cappadociani. Più che mulattieri, erano dei piccoli imprenditori, infatti
c’erano famiglie che possedevano cinque o sei ‘mmasciate con circa
trenta muli. Possedevano sempre una cavalla, che serviva per la razza e come
capobranco per i muli. Allocare tutte queste bestie era, dal punto di vista
organizzativo, un impegno. Bisognava trovare il lavoro, combinare bene il
prezzo, mantenere basti e tutto il resto del corredo, non far mancare mai la
biada, trovare sistemazione alle bestie ed alle persone. Quando si restava
senza lavoro, era un problema perché non si avevano entrate e le spese per il
mantenimento delle bestie comunque procedeva. Per tale motivo, nelle famiglie
più grandi, il capofamiglia si dedicava ad organizzare e programmare il lavoro
frequentando i mercati ed i punti di incontro consueti, per essere sempre
aggiornati sui prezzi e sistemare le sue ‘mmasciate.
Il mulattiere prestava generalmente servizio militare nel corpo degli alpini,
e spesso, se non nascondeva il suo mestiere, lo mettevano a fare il conducente
di muli. Qualcuno ne approfittava per fare il corso di mascalcia, che poi gli
tornava utile nel suo lavoro quotidiano. In questi casi, quello più vanitoso,
mostrava con orgoglio il diploma di mascalcia, incorniciandolo e mettendolo
bene in mostra. Durante l’operazione di ferratura mostrava tutto il suo
sapere, dando disposizioni in modo professorale e mettendo il cosiddetto “prezzo
alla sarache” al lavoro fatto da altri.
Durante il periodo invernale, il paese si svuotava e rimanevano solo “gli
artisti” e qualche famiglia di mulattieri che non seguiva il capofamiglia nel
suo ciclo di trasferimenti stagionali. Permetteva così ai figli di frequentare
una scuola regolare ed accudire qualche anziano in precarie condizioni
fisiche. A questo nucleo familiare, che restava al paese nel periodo
invernale, era spesso assegnato il compito di governare i muli giovani che non
erano ancora pronti per il lavoro e che pertanto il mulattiere non portava
dietro.
Dal dopoguerra in poi, via via in maniera crescente, parecchi mulattieri hanno
lasciato il lavoro trasferendosi a Roma e riconvertendosi in altri mestieri
più comodi. I primi, per rimanere in tema, hanno aperto negozi di casalinghi
carbone e legna, oppure fiaschetterie e osterie, altri si sono messi a fare i
portieri nei condomini, altri ancora si sono arruolati in polizia, finanza ed
altri corpi. La maggior parte, comunque, a partire dagli anni 60 ha venduto i
muli acquistando un taxi ritornando quindi vetturino e facendo sempre “viai”.
Attualmente, essendosi nel territorio nazionale sviluppata una cospicua rete
di strade carrabili, la maggior parte dei trasporti avviene per ruota. L’uso
del carbone di legna è considerevolmente diminuito e si produce direttamente
in stabilimento. Il numero di mulattieri, per questi motivi è notevolmente
diminuito ed a Cappadocia se ne contano poche unità. I vetturini superstiti,
vivono molto diversamente dai loro predecessori, avendo a disposizione
automobile o fuoristrada per gli spostamenti. E’ diventato un mestiere come un
altro, ed il disagio non coinvolge più il resto della famiglia, che vive in
una normale abitazione nel centro abitato più vicino.
Gli ex mulattieri, nel mese di agosto, si ritrovano ancora in piazza nei
pressi dell’osteria “Purgatorio”, l’unica rimasta, e pur se in
pensione, o praticanti altri mestieri più convenzionali, parlano sempre di
macchie, muli ed altri argomenti attinenti. Si sfottono a vicenda, con
notevole senso dell’ironia, millantando le loro gesta passate e mettendo in
evidenza gli errori degli altri. Amplificano le loro imprese denigrando quelle
altrui; per mettere in risalto la lentezza nel lavoro di un mulattiere, un suo
ex collega gli disse “a ti la lena tesse seccheva alle mani”. Si
ricordano perfettamente tutti i muli con i rispettivi nomi che hanno posseduto
e specialmente i loro pregi, si ricordano anche i muli dei colleghi con i
rispettivi difetti. Ognuno si sente più bravo dell'altro e qualcuno, offeso,
se la prende, “appizza le recchie” e comincia a scalciare “zicchiare”,
ma quasi sempre in senso metaforico.
[1]
Mujaro in dialetto cappadociano, muaro in dialetto
petrellano.
[2]
Carlo Cassola, Il taglio del bosco, pag. 87.
[3]
“Avevano poca manualità”.
[4]
“Hai risolto tutti i tuoi problemi”
[5]
Con la monta naturale è relativamente bassa: 30-50%
[6]
Altro noto mulattiere cappadociano di quegli anni.
Tratto dal Libro Storia di Cappadocia,
Petrella, Verrecchie di A. Fiorillo - 2005
Interessante bellissimo !
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